Arte

Alla Biennale, padiglioni stranieri

Dopo un rapido e sintetico esame degli spazi ufficiali dati in dotazione al direttore della Biennale Ewzenor, con relative rampogne che non gli ho certo risparmiato, ora mi spetta di condurre l’altrettanto tradizionale visita ai padiglioni nazionali, che di edizione in edizione aumentano in numero impressionante, quasi con puntuale riscontro alla molteplicità di Paesi costituenti l’ONU. E’ giusto che questa visita cominci dal Padiglione Italia, ma qui sono dolori, non abbiamo ancora trovato la modalità giusta di presentarci, a casa nostra e spendendo i nostri soldi. Forse per eccesso di spirito di ospitalità abbiamo preso l’abitudine, quasi masochista, di riservarci il peggiore dei posti possibili. Tale deve essere considerato lo spazio detto delle Tese, situato al termine del lunghissimo ed estenuante percorso che, attraverso le Corderie e le tante altre stanze contigue, ciascuna coi suoi nomi pittoreschi, conduce appunto fino a quell’angolo remoto, cui un visitatore giunge con la lingua fuori, e inoltre accolto da una semioscurità che lo costringe a muoversi a tentoni. Non so bene se una condizione del genere di scarsa illuminazione derivi da allestimenti presuntuosi o sia intrinseca alla qualità scadente del luogo, che in ogni caso è da evitare. Semmai, dovremmo piazzaci nei primi posti che si spalancano dopo la legittima sfilata di quanto è riservato al curatore ufficiale, e che resta il meglio delle varie Biennali, in quanto corrispondente allo spirito dei vecchi “Aperto”, che è stato un errore disastroso abbandonare, ma la funzione è poi rientrata dalla finestra, infatti è là che, semmai, si incontrano interessanti volti nuovi, al di fuori dei “soliti noti” che il curatore in carica, a nome della categoria, si sente in obbligo di collocare nel Padiglione ai Giardini. Ma a ben pensarci, questa sarebbe la collocazione migliore, anche in questo caso tornando all’antico. Nella Biennale del 1972 sono stato curatore, accanto a Francesco Arcangeli, della sezione detta “Opera o comportamento”, per cui mi è stato possibile far giungere a Venezia per la prima volta due Poveristi come Merz e Fabro, e degni outsider come Vaccari e De Dominicis ecc. Ebbene, le loro sale, ampie, spaziose, stavano su due assi laterali, nell’ala di destra del corpo centrale, che a sua volta ospitava una coerente ed esauriente mostra dedicata alla scultura internazionale, a cura di Giovanni Carandente. Perché l’Italia non dovrebbe riappropriarsi di quella centralità, magari portando via qualche metro quadrato alle sconclusionate occupazioni del curatore di turno? Forse una simile possibilità oggi risulta compromessa da certi usi accessori, un bookshop, un bar-ristorante, che rubano spazio utile, ma per questi si potrebbe ricorrere a qualche corpo esterno, mentre si dovrebbe ridare dignità e cospicua presenza ai nostri maestri, anche accogliendo quel principio di buon senso che altrove ho già condensato nella formula “Uno alla volta per carità”. Infatti, tornando all’attuale esposizione, è uno spreco giocare contemporaneamente tre nomi di prim’ordine quali Kounellis, Paladino e Parmiggiani, sacrificati in stanze modeste mentre ciascuno di loro avrebbe avuto il diritto di mostrarsi al pieno del suo valore, e così di aspirare legittimamente al riporto del Leon d’oro. Poi, certo, ci sta bene qualche giovane, e magari questi sì, è possibile trasferirli altrove, ma non troppo fuori mano.
Fatti questi rilievi di carattere istituzionale, nulla da dire nella selezione operata da Vincenzo Trione, che potrebbe anche ambire in futuro a una direzione generale, tutto meglio piuttosto che gli strafottenti e supponenti campioni dell’infausta categoria dei “curators”. Bene, nella sua scelta, i casi, come da tutti riconosciuto, di Vanessa Beecroft e di Marzia Migliora, ma anche di altre presenze degne di considerazione, seppure compromesse dall’oscurità e dalla segregazione.
Tornando al cuore della Biennale, e cioè ai Giardini, non è che emergano presenze particolarmente brillanti, l’annata è scarsa e deludente. Avessi dovuto dare io il premio per il miglior artista-padiglione estero, lo avrei assegnato alla Gran Bretagna per la convincente partecipazione di Sarah Lucas, con quelle sue figure che si sciolgono, si accasciano su sedie e tavoli, forse perché affette da un processo di regressione psichica a stati larvali, quasi a gara col gigante della sua terra, Francis Bacon. Oppure, se qualche figura osa presentarsi a uno stadio sviluppato e normale, subisce prontamente un crudele ma efficace smembramento. Male invece i padiglioni vicini. La Francia punta su una specie di giardiniera di prima classe, Céleste Boursier Mougenot, da spedire alla custodia del parco di Versailles, da cui sembra aver estirpato gonfie zolle sormontate da svettanti alberelli, trasgressivi rispetto ad ogni saggia politica del verde, anche se, per tentare di farsi perdonare l’affronto, quelle piante sradicate emettono musiche confortanti. La Germania fa andare su e giù per scale e pianerottoli senza che ci si raccapezzi e si capisca bene il senso di quei lavori in corso. Gli Stati Uniti presentano un mostro sacro, Joan Jonas, e nulla da dire, dato che c’è una autonomia dei singoli padiglioni, e dunque chi ne è responsabile non ha da fare i conti, da prender atto, per esempio, che la Jonas era già presente alla precedente Biennale, e che pure il milanese Hangar Bicocca le ha reso di recente un consistente omaggio. Quando si tratta di nomi presenti nel sacro gotha internazionale, i “curators” si mobilitano, a scanso del guaio che il visitatore perda l’abitudine di rendere il dovuto omaggio a quei numi. Parte dei video della Jonas, dove l’artista indaga su api o su pesci, corredandoli di relativi studi e schizzi, sarebbero forse da trasferire d’ufficio all’Expo, altri invece potrebbero allietare qualche kinderheim e le relative fantasie infantili. Si sente, al confronto, la mancanza dei contenuti forti, orrorifici, aggressivi di un Mattew Barney. Il Giappone affida a Chiharu Shiota una soluzione brillante, aggraziata ma anche leziosa, consistente in una pioggia di chiavi cadenti dal soffitto del relativo padiglione. il Canada gioca la stessa carta che nell’altra Biennale aveva svolto molto bene lo svizzero Hirschhorn, al punto che, come detto nel giudizio sul Padiglione centrale, il riproporlo di nuovo a breve distanza è risultato operazione pleonastica e superflua. Si tratta cioè di celebrare l’afflusso incontenibile, ai nostri giorni, della merce, ma se si vuole prendere in contropiede la sapiente disposizione che questa miriade di prodotti ottiene in ogni supermarket, bisogna che un pizzico di disordine, di caos vitale, si impadronisca degli scaffali, come appunto l’artista sopra nominato sa fare molto bene, mentre l’allestimenti dei seguaci canadesi risulta troppo pulito e ordinato. Il titolo Canadissimo sta a indicare il ricorso a un superlativo nel segno della quantità e non della qualità.
Se poco di buono ci viene dato dai padiglioni dei paesi usualmente più reputati, liete sorprese si hanno invece in partecipazioni più a latere. Per esempio, entrando nella sede dell’Uruguay, a tutta prima siamo accolti da un senso di vuoto e di pareti bianche, ma poi scopriamo che l’artista qui attivo, Marco Maggi, ha finemente lavorato producendo tante piccole escrescenze, quasi che l’intonaco avesse risentito di qualche malattia infettiva. Lì vicino, l’Australia, che ormai si è conquistata il diritto di venir considerata tra le presenze di maggior peso, punta su un effetto opposto, con Fiona Hall, su un effetto di “tutto pieno”, raccogliendo tanti reperti della propria terra, di carattere paleontologico, o apotropaico, reliquie di culti, strumenti di caccia e pesca, insomma, è proprio quel provvido senso di caos libero e delirante che, a livello della merce standard, ci viene fornito così bene da Hirschshorn. Troppo ordinata e conforme, invece, la sfilata di strumenti agricoli che ci presenta l’olandese Herman de Vries, un altro caso da dirottare sull’Expo, però valida è la campionatura da lui offerta dei colori che la buona terra coltivata può assumere. Qualche lieta sorpresa si può avere anche passando il canale, non tanto dal Brasile, che non riesce mai ad esprimere l’alto potenziale di Paese emergente qual è in tutte le direzioni, compresa quella dell’arte. Colpisce la Serbia per la semplicità ma anche l’efficacia di un allestimento, ben dichiarato da un titolo funereo e paradossale, “United Dead Nations”, che infatti è una meditazione sulle guerre che hanno lacerato quel paese mettendo in opposizione le varie comunità, qui testimoniate attraverso bandiere lacere e insanguinate. E visto che tra i temi affioranti da questa Biennale ci potrebbe stare anche un possibile ritorno alla pittura, come indicano i casi eloquenti di Baselitz e Duras, ovviamente per nulla raccolti dal distratto general manager, troppo impegnato nella difesa dei valori ufficiali dello star system, spezziamo una lancia a favore della Romania, che affida a Adrian Ghenie qualcosa di simile, ma attraverso pennelli e colori rutilanti, alla regressione psichica così bene sviluppata a livello plastico dalla Lucas.

Standard