Arte

Boltanski in versione totale

Il Comune di Bologna ha avuto senza dubbio un’idea felice nel chiamare l’artista francese Christian Boltanski a lavorare attorno al museo eretto in memoria della caduta dell’aereo Itavia nel cielo di Ustica, ormai più di un trentennio fa. Già la ricostruzione del relitto, ripescato pezzo a pezzo in mare, è un qualcosa di rispondente al gusto cimiteriale di Boltanski, specializzatosi nel trattare indizi, reperti, memorie di estinti, cari o meno, forse cancellati per sempre dal nostro ricordo se non fosse per minime foto, sull’orlo di svanire del tutto, forse proprio ricacciate nel nulla per effetto di quella loro stessa presenza tanto vaga e precaria. Del resto, Boltanski può vantare, o noi per lui, una assidua presenza presso le nostre istituzioni. Forse sono stato io ad averlo convocato per una prima volta nel 1994, quando alla vecchia GAM, allora felicemente sorgente nel quartiere fieristico, in stretta collaborazione con Pierre Restany, e proprio per sfruttare la nostra solida amicizia e la sua forte autorevolezza, concepii la mostra “Arte in Francia”, a partire dal 1970, e Boltanski non poteva mancare già a quell’appuntamento, assieme all’altro cavallo di razza dell’allevamento francese, Daniel Buren. La mostra godeva del pieno appoggio dell’allora direttore della GAM Nino Castagnoli, nonché, grazie al carisma di Restany, di un cospicuo finanziamento da parte dell’AFAA, che vorrebbe dire Agence Française d’Action Artistique, e avrebbe dovuto trasferirsi in altre sedi, a cominciare da Napoli, che stava per ospitare un G 7 (quello il numero dei convitati, al momento). Ma era scoppiato un dissidio tra me e Castagnoli circa il mantenimento o meno della GAM in quella zona periferica, e lui per protesta contro la mia tesi continuista, da paladino per un trasferimento della Galleria in area più centrale, preferì impacchettare subito la mostra e rimandarla al mittente, a Parigi, con grande disappunto dell’AFAA, che invece avrebbe voluto farle fare un ampio tour europeo. Ricordo ancora l’emozione di quando, alla ricerca di un Boltanski valido, mi ero recato nel cuore della Ville Lumière, presso il CNAC (Centre National d’’Art Contemporain), già provvisto di tutte le immagini in memoria presenti, di quell’artista e di ogni altro di qualche fama, nei vari musei del Paese. Potei dunque scegliere con comodo l’opera più indicata per rappresentare quell’artista nel suo modo di procedere. E appunto egli stava già seguendo in pieno il rito delle piccole immagini, disposte su altarini, corredate da altrettanto piccole lucine elettriche, in una specie di succursale di visioni cimiteriali. Poi era intervenuto il successore di Castagnoli alla guida della GAM, Danilo Eccher, con ottima conduzione, anche per la capacità di sfruttare adeguatamente una seconda sede della GAM, che poi era la prima esistita, cioè Villa delle Rose. Nel frattempo Boltanski aveva ingrandito le sue immagini fantomatiche, con la buona idea di trasformarle in lenzuoli non fissati ai bordi, e dunque liberi di agitarsi al vento, attraverso finestre mantenute aperte, come appunto avveniva a Villa delle Rose. Il tutto ne aumentava ancor più il senso di fragilità. Poi anch’egli aveva sofferto del limite che affligge, al giorno d’oggi, ma forse anche in passato, gli artisti giunti a elaborare una formula felice, ma che si vedono costretti a iterarla, in una accanita ricerca di come potenziarla, o saltarne fuori. Buren, rimasto prigioniero volontario delle sue strisce policrome, le riscatta però attraverso installazioni ardite e sempre diverse. Boltanski ci ha provato industrializzando addirittura il suo motivo di base, come ha fatto a una Biennale di Venezia quando gli venne dato il padiglione del suo Paese, facendo scorrere le immagini su un nastro trasportatore, quasi come su catena di montaggio. Ora, avendo a sua disposizione l’intero spazio della nuova sede del Mambo, vi erige una sorta di cortina o di baluardo di veli recanti i fantasmi del passato, e il visitatore si deve aprire il cammino scostandoli, come in una giungla madreperlacea, mentre alle pareti occhieggiano le luminarie erette attorno a una infinità di altarini. Dato il molto spazio a sua disposizione, e l’occasione di particolare importanza, l’artista ne approfitta per passare in rassegna tutte le sue ulteriori invenzioni, sempre collegate al nucleo di partenza, ma con estensioni metodiche. Come quella di raccogliere, non solo le sembianze dei morti, facendole diventare sempre più pallide ed evanescenti, ma anche i loro indumenti, accumulati in pile orride, in carrelli, anch’essi destinati a procedere verso forni crematori, e dunque a essere cancellati. Nel che, a dire il vero, Boltanski rischia di rasentare certe soluzioni dell’ex-moglie Annette Messager, che si è specializzata nell’accumulo di reperti “soffici”. Sempre alla ricerca di margini innovativi, in una mostra al milanese Hangar Pirelli Boltanski ha pure tentato un ulteriore esperimento, sempre in tema di ridare presenza a minime tracce corporali, mettendo a punto uno strumento che consente di udire i battiti cardiaci, come un orologio che scandisce quanto manca, a ciascuna esistenza, per superare la soglia fatidica. Non vedo, tra questa interessante escussione di tutte le varianti sperimentate da un artista che teme di vedersi inchiodato a un repertorio fisso, una ingegnosa trovata messa in atto in una mostra alla torinese Fondazione Merz, consistente nel presentare una serie di scatoloni “cellophanati”, come tante tombe mute, anonime, che però non lasciano dubbi circa il loro contenuto inevitabilmente mortuario. Non manca, in questa rassegna davvero completa, una eccellente idea concepita dal Nostro in occasione di una recente Biennale di Venezia, in cui ha esposto un’ampia proiezione video di un cimitero raggiunto per vie insolite, trattandosi di una giungla di fusti magri, rinsecchiti, sorgenti da una piana ugualmente sterile, il deserto di Atacama. Non più foto agitate al vento, ma campanelli, con traduzione da un senso all’altro, dalla vista al suono. In fondo, è lo stesso procedimento con cui Boltanski sostituisce alle incerte presenze visive affidate alle foto i rimbombanti battiti del nostro cuore. Confesso che preferisco di gran lunga questa diversa manifestazione sonora, sottile, aerea, spirituale, cui davvero conviene il titolo globale che Boltanski assegna a questa sua totale presenza bolognese, iscritta sotto il nome di “Anime”.
Christian Boltanski, “Anime. Da un luogo all’altro”, a cura di Danilo Eccher, Bologna, Mambo e altre sedi, fino al 12 novembre. Cat. Silvana Editoriale.

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