Arte

Kronenberg: la rivincita del sensibile

Qualche mese fa ho recensito sull’”Unità” la mostra di Alessandro Roma alla Galleria Zanin di Roma, dopo averlo invitato con gran piacere alla mostra Biennale Giovani 3, tenutasi nell’inverno 2014 all’Accademia di Belle arti di Bologna. In lui, assieme ad altri suoi compagni di via, ho salutato un ritorno alla pittura, o per meglio dire, a una ri-sensibilizzazione della scena artistica internazionale, ormai stanca degli eccessi di smaterializzazione tipici degli ultimi prodotti del “concettuale”. Ora un’uguale approvazione posso rivolgere anchee alla mostra che si tiene sempre alla Zanin di Giovanni Kronenberg, fra l’altro già da me e colleghi invitato a una edizione del videoartyearbook, la rassegna video che teniamo nel Dipartimento bolognese delle arti ogni estate. A dire il vero, sembrerebbe esserci ben poca relazione tra quanto allora l’artista ci offriva sullo schermo, due fidanzatini ricostruiti ad arte in studio con le tecniche digitali, prigionieri di una perfezione asfittica, nel loro incontro in un gelido panorama innevato. Ma si sentiva che proprio quel loro precisionismo era illusorio, era appena una pellicola sottile che poteva sgualcirsi, come i petali di un fiore troppo delicato, che non riesce a mantenere intatta la sua veste fin troppo splendente. Infatti oggi Kronenberg ci si presenta, in sostanza, con corpi arruffati, contratti, come lumache o tartarughe che si precipitino a mettere al riparo le loro epidermidi nude. Nel suo caso non si può certo parlare di un ritorno alla pittura, il che del resto non vale neppure nel caso di Roma, anche lui intento a creare come degli epiteli di una natura nata in serra, in climi forse addirittura extraterrestri, sempre incerta se distendersi in piano o invece corrugarsi, riempirsi di pieghe, di avvolgimenti. Kronenberg opta decisamente per la terza dimensione, ma con ricorso a corpi di provenienza organica, spugne bucherellate, anfrattuose, o ammassi di ceramica, capaci di sfruttare tutta la congiunta duttilità e malleabilità che questa materia consente, allargandosi come in piatti di portata, accartocciati agli orli, e dunque destinati a ospitare al loro interno delicati motivi decorativi, come preziose maioliche; oppure contraendosi, facendo massa, ma in tal caso prolungandosi, come datteri di mare. Se si vuole designare un precedente, vengono alla memoria le splendide ceramiche che Lucio Fontana sapeva modellare sullo scorcio degli anni Trenta, quando per lui si parlava appropriatamente di una “carriera barocca”, poi messa in fuga dalla svolta verso la produzione dei buchi e dei tagli, troppo celebrati, nella loro estenuazione mentale, rispetto a quelle precedenti creazioni prodotte sul filo di un estro libero e selvaggio. Ora è il momento di rimettere sugli altari “quel” momento del maestro lombardo, o quanto meno così si comportano seguaci proprio come il nostro Kronenberg, che sentono il bisogno di affondare nel sensibilismo, di darci dei concentrati di materia carica di emozioni e suggerimenti.
Roma, Galleria Sara Zanin, a cura di Alessandro Rabottini, fino all’8 novembre.

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