Arte

Da Cimabue a Morandi. Una mostra che “s’aveva da fare”

La mostra “Da Cimabue a Morandi” segue da vicino la famosa prolusione che Roberto Longhi tenne nel 1934 assumendo la direzione del bolognese Istituto di storia dell’arte, sentendosi tenuto, nell’occasione, a tracciare l’identikit della “Felsina pittrice”.

E’ incredibile pensare che sono dovuti trascorrere settant’anni per vedere quel “sendero luminoso” trasformarsi in una esposizione da godere con gli occhi. Qualcuno, a dire il vero, ci aveva pensato, io stesso feci tutto il possibile per realizzare qualcosa di simile, considerandolo l’evento espositivo più degno di quando, nel 2000 tondo tondo, Bologna fu capitale europea della cultura, ma qualcuno mi si mise di traverso, e dunque quella mostra, che pure “s’aveva da fare”, come si potrebbe dire in stile manzoniano, non venne realizzata. Altrove mi sono già felicitato col duo che finalmente l’ha resa possibile, si tratta di Fabio Roversi Monaco, dominatore assoluto, negli ultimi decenni, della vita socio-culturale della nostra città, a lungo come rettore dell’Alma mater, poi alla presidenza della Fondazione Carisbo, una carica che gli ha consentito di apprestare un grandioso circuito museale intestato a “genus Bononiae”, con al culmine il Palazzo Fava, che ora ospita la mostra. Accanto a lui, Vittorio Sgarbi, che fu “enfant prodige” proprio del nostro allora Istituto, all’ombra di Longhi, ma che appariva già provvisto di artigli, come a me, non di fede longhiana eppure fortunosamente trovatomi alla testa di quella struttura, riuscì subito evidente, tanto da utilizzarlo in piccole incombenze locali. Poi il leoncino è cresciuto, e i nostri rapporti sono divenuti assai chiaroscurati, per tante differenze di natura ideologica, critica e perfino caratteriale. Ma tutto ciò non mi ha fatto certo velo, e dunque ho riconosciuto che finalmente grazie a loro si è colmato un vuoto. Un riconoscimento che si accompagna a recriminazione, contro l’assessore alla cultura del nostro Comune che ha abdicato al compito, sacro per decenni a tutti i suoi predecessori, di organizzare rassegne rivolte proprio a coltivare le nostre passate glorie. Ho già commentato che un rapporto tra il Comune e le Fondazioni, che dovrebbe essere di sussidiarietà, in tal modo è divenuto di totale surrogazione. Sarebbe come se il nostro governo ora rinunciasse alla RAI, considerando che il suo posto è riempito da Mediaset. E sono anche da respingere le critiche avanzate con tanto clamore per supposti reati di trasferimenti di capolavori dalle loro sedi normali. Se si parla della tavola di Cimabue, Madonna e Bambino, terza in ordine di qualità dopo le opere supreme degli Uffizi e del Louvre, ebbene, finché se ne sta nelle tenebre di S. Maria dei Servi ben pochi vanno a mettere una monetina nell’apparato elettrico che la dovrebbe illuminare, quindi ben venga una esposizione capace di darle il rilievo che merita. Quanto alla S. Cecilia di Raffaello, il soprintendente Ficacci si è affrettato a spiegare che in ogni caso veniva sottratta alla vista per lavori in corso, e si sa bene che tutti i musei del mondo, quando chiudono temporaneamente, ne approfittano per far circolare i loro capolavori.
Venendo alla mostra, sviluppata nei tre piani dell’ottimo Palazzo Fava, essa appare molto completa, inutile stare a sottilizzare su qualche questione di dettaglio, semmai l’unico rimprovero che si può muovere a Sgarbi è di non averla dotata di un apparato didattico. Mi chiedo che cosa possa capire il visitatore comune quando, nel succedersi delle opere, si trova di fronte il muro dei tanti dipinti del Cinquecento, come può capire per esempio il passaggio cruciale dal Manierismo al grande rilancio della “maniera moderna” effettuato dai Carracci e dal Reni, il massimo vanto della “Felsina pittrice”? E’ vero che Sgarbi estrae e mette in rilievo alcune frasi in cui gli interpreti di questa storia, dal Longhi ai suoi allievi, Arcangeli, Volpe, Riccomini, Benati ecc, sottolineano i valori, la qualità di alcuni passaggi, ma forse ci voleva un discorso più disteso. Resta il fatto che da questo canovaccio, se il duo vorrà insistere, potrà trarre tanti ingrandimenti o messe a fuoco successive, per esempio forse è l’ora di condurre da vicino una rilettura del Trecento, o di indagare proprio sul passaggio dal Manierismo all’età del grande naturalismo secentesco, o di dipanare il filo del neoclassicismo. Infine, molto sommarie sono le testimonianze sul Novecento, schiacciate dalla stritolante presenza di Morandi, e anche penalizzate dal criterio di dare posto solo agli illustri estinti. E dunque, ci starebbe subito una puntata da Morandi in su, verso i nostri anni. Comunque, questa ricognizione appare giusta, necessaria, inevitabile.
Fino al 17 maggio, cat. Bononia University Press.

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