Letteratura

“Dogman”, un Davide contro Golia

Mi valgo ancora una volta della da me più volte proclamata equipollenza tra prodotti di narrativa cartacea e opere cinematografiche per parlare di nuovo di un film. Domenica scorsa mi ero occupato della fresca pellicola di Pupi Avati, con la rivelazione di una magnifica attrice fanciulla, che si inoltra senza esitazione nell’universo del delirio. Questa volta la scena cambia, infatti vado a parlare dell’ultimo film di Matteo Garrone, “Dogman”, che è autore che ama darci storie di brutalismo, di ferocia, contrapponendo alla “bellezza” estenuata di cui il regista bolognese talora è capace, l’orrida aggressione di una “bestia” trionfante. Infatti proprio per la forte recitazione di Marcello Fonte questo film si è imposto a Cannes, riportando il premio per il miglior attore. E così Cannes ha rimediato al torto che allo stesso Garrone aveva inflitto nel 2015, quando il suo “Racconto dei racconti”, pur invitato nella selezione principale, non aveva ricevuto dalla giuria alcun riconoscimento. Eppure già là si manifestava la mostruosità latente nella poetica di questo autore. Mi aveva impressionato un episodio marginale di quel film, ma rivelatore, quando un principe aveva indetto una gara a chi riconoscesse quale fosse l’animale di cui si mostrava un ingrandimenti spinto. E solo uno tra i partecipanti vi aveva intravisto la presenza gonfiata oltremisura di una pulce. Col che possiamo entrare subito nel film di cui intendo parlare, ispirato da un vero fatto di cronaca, avvenuto nel 1988 in uno dei quartieri più desolati di Roma, la Magliana, dove un “canaro”, un addetto alla tolettatura dei cani, si era vendicato di un minaccioso prepotente. Non per nulla il “canaro” che qui compare si misura con cagnoni enormi, che però si prestano docili alle sue cure, quando ne ritaglia gli unghioni o ne pettina l’irto pelo, del resto traendone anche la sua stessa immagine, quasi in base al proverbio di “chi va con lo zoppo”, con quel che segue. L’attore Fonte non si tira indietro, impresta alla vicenda la sua faccia, contratta quasi un continuo spasmo, in un ghigno rigido, tanto da fare proprio di lui la mitica “bestia”, l’orrido Quasimodo di una cattedrale victorhughiana dei nostri giorni, beninteso sommersa, franata al suolo, anzi, sospesa a bagno Maria, minacciata da pozzanghere, da un’invasione di acque limacciose. Come vuole pur sempre il mito, la “bestia” ha un cuor d’oro, a cominciare dall’amore per una figlioletta, così intenso da trasportare l’intera scena in una dimensione utopica. Infatti non si capisce come un soggetto così basso e degradato, costretto a guadagnarsi la vita con un mestiere volgare, anche se irrobustito da traffici con la droga e da compromessi con la piccola delinquenza locale, si possa concedere di tanto in tanto delle magnifiche vacanze in paradisi tropicali, dove lo vediamo compiere serene battute di pesca subacquea, con tutti gli attrezzi che ci vogliono, in compagnia della ragazzina amata. Sono intervalli “fuori scena”, quasi onirici, che interrompono una vita di stenti, dove fra l’altro il nostro cuor d’oro, ma debole, vittima della sua bassa statura, deve fare i conti con un prepotente che pretende di dominarlo e di trascinarlo sulla via del crimine. Infatti lo obbliga ad aprire un buco nel suo misero negozio per accedere a quello di un vicino e andarvi a compiere una rapina. Ne verranno guai, il nostro sarà arrestato come complice, dovrà scontare un anno intero di carcere, e all’uscita, il prepotente sarà subito pronto a riannodare la sequela di minacce per spingerlo di nuovo a delinquere. Da qui un impulso vendicativo del “canaro”, che prende a mazzate la moto del rivale, provocando in lui una pronta ritorsione, fino quasi a causarne il decesso per un carico di botte in cui il violento scatena tutta la sua ira. Ma il canaro è aguzzo d’ingegno, riesce a catturare il bestione, a farlo entrare in una gabbia. Ne segue una sequenza selvaggia in cui i due fanno a gara a chi ci mette più di sadismo, di crudeltà, fino a limiti estremi. Qui, diciamolo pure, Garrone arieggia le violenze efferate di cui è capace Tarantino, ma d’altra parte riconosciamo che lui stesso quasi per natura è abituato a camminare su quella strada. Il piccolo, debole, imbelle canaro con la forza dell’astuzia vince il Golia sfrontato, e non gli resta che affrontare il problema di come disfarsi del cadavere della vittima. Se lo addossa alle spalle, lo infila nel proprio furgoncino, pensando poi di far scomparire ogni traccia del delitto dando fuoco all’auto. Ma no, ecco un guizzo di orgoglio, il canaro cambia idea, torna a caricarsi dell’ingombro del cadavere e lo trasporta al centro dello spiazzo in cui gli abitanti di quella colonia diseredata conducono la loro stentata vita comunitaria. Lì lo piazza, in attesa di esporlo all’ammirazione dei vicini, e intanto impone al suo volto un fiero cipiglio che quasi ne abbellisce i tratti, li rende sublimi. Il regista capisce che siamo al clou dell’intera storia, e dunque si sofferma su quel momento, induce l’attore a rivolgere un’occhiata trionfale a tutto tondo verso tutti i punti dell’orizzonte. Forse proprio in quel momento Fonte conquista il diritto a essere premiato. In fondo fin lì la sua era stata solo una abbastanza consueta vicenda di brutalità, di arretratezza, cose da quartieri bassi, ma quello sguardo diviene davvero intrepido, intenso, dominatore.

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