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Fertilio: una nuova opera mista “di storia e di invenzione”

Dario Fertilio è un narratore di non facile collocazione, al limite con il saggista di carattere storico. Parlando di un suo precedente romanzo, ho adottato per lui la formula manzoniana di un produttore di opere “miste di storia e di invenzione”, col rischio che la prima si mangi l’altra, pretendendo di essere giudicata come tale, con gli intransigenti criteri della storiografia. Ne seppe qualcosa il Manzoni stesso, che deluse il suo pubblico scrivendo dopo i “Promessi sposi” la “Storia della Colonna infame”, dove appunto la storia prevaleva sulla infelice controparte. In partenza il nostro Fertilio va a scegliere difficili nodi storici, basti pensare che la sua terz’ultima opera si occupava del “Mito di Ernesto Che Guevara e la sua ombra”, cui ha fatto seguito “L’ultima notte dei fratelli Cervi”, e ora siamo addirittura all’”Anima del Führer”, come si vede, un’attrazione irresistibile per i fatti più tenebrosi della nostra storia recente, affrontati in genere con spirito imparziale, ma suscitando in lettori, se collocati a sinistra, il timore di essere in presenza di un revisionista della più bell’acqua. In questo suo ultimo nato un primo protagonista, infatti, è un vescovo tedesco, Alois Hudal, impiantato a Roma, ma in una sede lontana dal Vaticano, la chiesa di S.Maria dell’Anima. Il personaggio ci fa temere di essere in presenza di un reazionario di puro stampo, basti dire che non è alieno dal celebrare le lodi di Hitler scorgendo in lui un “defensor fidei”, secondo la tesi che il dittatore avrebbe intuito il pericolo insito nello stalininismo da cui sarebbe venuta una sconfitta generale alla causa del cristianesimo. La storia ci dice che un simile convincimento rese Papa Pio XII assai cauto nella condanna del nazismo e dell’olocausto. Fertilio non ribadisce questa accusa, anzi, il suo eroe, o anti-eroe, si rammarica proprio perché Papa Pacelli non lo autorizza nella sua crociata e gli nega udienza in Vaticano. Ma questo non lo induce certo a rinunciare alla sua tesi, mentre lo porta ad assistere con sgomento alla caduta del Reich, procedendo subito dopo a mettere in piedi una catena di soccorso per permettere ai gerarchi nazisti di sfuggire alla cattura degli Alleati, frattanto giunti a Roma, e di espatriare verso l’America del Sud. Già fin qui molto abile è la trama di giochi diplomatici di cui il nostro autore ci dà conto, attraverso le caute visite di servizi segreti di vario conio al vescovo Hudal per incoraggiarlo o dissuaderlo nell’intento di ordire queste vie di fuga, nel che del resto egli può assumere il volto neutrale dell’amore cristiano che si rivolge a tutti i perseguitati, quale ne sia il colore.
Fin qui, però, Fertilio rischierebbe di venire strangolato tra le spire della ricostruzione storica di fatti cruciali, magari con l’obbligo di pronunciare giudizi, di assoluzione o di condanna. Ma al momento buono egli sa inserire l’invenzione romanzesca, tributaria non del vero bensì del verosimile, e nessuno per fortuna è abile come lui su questo terreno. Tornando ai romanzi precedenti, il dramma dei Fratelli Cervi vi era visto attraverso gli occhi di un ragazzino perfettamente ambientato nel territorio reggiano, coinvolto nei moti dei partigiani. La figura del Che veniva frugata attraverso una sorta di reportage tra il giornalismo e il turismo. Qui, a un tratto, siamo trasportati nella città di Königsberg, ultima roccaforte del Reich, ma osservata nel momento in cui vi entrano le truppe russe per imporle i caratteri del loro dominio, perfino nella toponomastica. Per fare narrazione, ci vogliono personaggi in carne e ossa, e infatti Fertilio ce ne dà due, capaci davvero di emettere lacrime e sangue, l’uno è il soldato Pëtr Shlychkov, che in quella città è nato, ma poi ha optato per l’URSS e ora ritorna nei panni del vincitore, però non esente da pietà per i vinti, che sono poi suoi ex-concittadini, nutriti delle sue stesse memorie. In particolare avviene l’incontro con una mater dolorosa, Marizta Altman, moglie di un fiero combattente in difesa dell’appartenenza di quella città al mondo germanico, forse caduto, forse sepolto tra le rovine, come con sortita notturna la povera moglie cerca di accertare recuperando con le unghie una salma presunta del marito scomparso. Al suo fianco, una figlioletta, Sonia, condannata a crescere nella fame e nella penuria. Tra il nostalgico conquistatore e la donna derelitta si delinea una casta storia d’amore, che però si interrompe quando il soldato viene inviato sotto falso nome proprio a Roma con la missione di confondersi con i tedeschi fatti oggetto della manovra di salvataggio ordita dal vescovo, sempre in bilico tra un istintivo filo-germanismo e i doveri pastorali. Il nostro infiltrato è tanto fedele alla sua missione, da giungere a imbarcarsi a Genova su una nave che porta verso il Sud America la fuga degli ex-nazisti, ma così abbandona la Altman e Sonia al loro triste, anzi catastrofico, tragico destino. Fertilio accede sì, abilmente, alla dimensione del romanzo, ma non si ritiene obbligato a concludere con un lieto fine. In ciò si distanzia dall’influsso manzoniano, se Renzo e Lucia alla fine si sposano, invece la dimensione della storia in definitiva ha partita vinta e semina solo lutti e distruzioni.
Dario Fertilio, L’anima del Führer, Marsilio, pp. 215, euro 16,50.

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