Arte

In ricordo di Angela Ricci Lucchi

In questo tragico e maledetto inizio d’anno mi giunge la notizia di un’altra scomparsa, di Angela Ricci Lucchi. Posso dire di averne assistito alla fine quasi in misura diretta, anche senza avere chiara consapevolezza dell’imminenza e gravità dell’evento. L’avevo incontrata, assieme al compagno inseparabile Yervant Gianikian, quando erano ancora nella felicità dell’ennesimo successo conseguito all’ultima Documenta. Facendone una recensione su uno degli ultimi numeri dell’”Unità”, prima della sua fine, avevo dichiarato che la parte a loro dedicata nella Neuhaus era tra le poche cose veramente forti ed esaltanti di quella rassegna, altrimenti caotica e disordinata, e me ne era venuto il desiderio di invitarli nella serie di commemorazioni che vengo facendo delle performances eseguite, quasi mezzo secolo fa, dal 1977 in avanti, nel corso delle Settimane internazionali tenute a Bologna, in concomitanza con Artefiera. Sembrava tutto facile, la coppia avrebbe proceduto sul finire dell’anno scorso ad assemblare brani e passaggi del loro laboratorio. Ma proprio in vista di quella serata, fissata il 2 febbraio ultimo scorso, ho visto affiorare, in Yervant, i segni dell’angoscia, fino al punto di rinunciare a venire di persona all’incontro, limitandosi a una presenza via Skype, per non allontanarsi da Angela, giacente vicino a lui in attesa di un ricovero ospedaliero, che avevo sperato potesse essere provvidenziale. Da questi foschi giorni il ricordo mi scivola indietro, ai primi ’70, quando Angela non aveva ancora incontrato il suo “angelo”, ma già lavorava attratta dal mito della rosa, e forse dal suo profumo, ma prendendo dal fiore una giusta distanza protettiva, attraverso le modalità Pop, ben sapendo cioè di maneggiare uno stereotipo, e procedendo quindi a neutralizzarlo su una lastra di perspex. Ne ho ancora un esemplare nella mia collezione privata. Ma poi ha lasciato che l’odore del fiore si facesse sentire, assieme ad altri odori, non solo piacevoli ma anche nauseanti, come in definitiva è la vita, che non li ha mai spaventati. Ed ecco allora che i due furono pronti ad affrontare appunto la performance, ovvero a praticare in toto la sensorialità, con tutti i suoi attributi. Hanno poi accettato ben presto di riversare quel concentrato di sinestesie sulla pellicola filmica, ma con tante precauzioni. Avevo previsto che in quel faccia a faccia del febbraio scorso fosse presente anche il direttore della nostra Cineteca, Gian Luca Farinelli, protagonista, come è ben noto, di una fortunata impresa di “cinema ritrovato”. Maliziosamente gli avrei contrapposto i nostri due, che dei vari spezzoni senza dubbio da loro “ritrovati” con cura meticolosa in archivi e cineteche, non hanno mai effettuato un restauro, anzi, ne hanno affrettato un degrado voluto, programmato come degradata, bassa, piena di crisi, di intoppi, di crudeltà è la nostra esistenza quotidiana, soprattutto quando viene percepita lontano dai comodi “parapetti” europei, nei paesi a rischio dell’Africa e dell’Asia, sottoposti nei secoli proprio allo sfruttamento e alla repressione di noi occidentali, intenti magari, nel ricavarne immagini, a edulcorarle, a imbellettarle, in modo da nascondere colpe e responsabilità. La nostra coppia voleva invece asportare lo strato falso e retorico, perbenista, come si fa con un palinsesto ipocritamente ricoperto da una scrittura ufficiale per farne emergere invece una carne viva e dolorante. Quest’operazione era accompagnata, per renderla più esplicita, per ridare corporeità, tangibilità, immediatezza a queste registrazioni, da una serie di magnifici disegnini, abbozzi, appunti, proprio perché il documento non avesse il tempo di raffreddarsi, di ricomporsi, come si può ricomporre una persona che non vuole essere sorpresa in deshabillé. Questo loro modo di procedere su doppio binario gli ha permesso di mietere una serie di successi e riconoscimenti dai grandi musei del mondo, MOMA, Beaubourg, Hangar Bicocca, e Biennale, e Documenta. Voglio sperare che Yervant, superato il momento dell’angoscia e del dolore, non si arrenda, ma continui nel comune cammino, porti a realizzazione i progetti che certo giacciono nel cassetto di una stanza rimasta, si spera, non invano deserta.
Da “Artribune”, 1° marzo 2018

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