Arte

Jim Dine a Roma

L’Accademia di San Luca, a Roma, ha avuto negli ultimi tempi un bel risveglio da un sonno decoroso ma polveroso di un passato recente. Credo che il merito inziale vada dato a Nicola Carrino, quando ne è stato presidente nel biennio 2009-10, mettendo in campo molte iniziative, poi riprese dai presidenti successivi, fino all’attuale direzione di un ottimo pittore, Gianni Dessì. Buona l’idea di ridare all’Accademia un ruolo quasi istituzionale portandola a presentare mostre collegate con qualche evento ufficiale. Per esempio, la magnifica esposizione di Luigi Ontani, dell’anno scorso, era collegata al Premio a lui giunto dalla Presidenza della Repubblica. A dare ancor più lustro al rilancio della San Luca, Ontani ha avuto il merito di ricordarci che il suo secolare edificio, Palazzo Carpegna, ospita una straordinaria scala elicoidale del grande Borromini, eppure quasi dimenticata o negletta. Io stesso, membro dell’Accademia, ne ho salito tante volte la rampa principale di scale o mi sono valso dell’ascensore per accedere ai piani superiori ma ignorando quello straordinario percorso. Ora è il turno di Jim Dine, in quanto eletto accademico d’onore nella classe degli artisti stranieri. Dine si accontenta della normale suite di stanze al pianterreno della nobile sede dell’Accademia, ma ne prende l’occasione per ribadire come non mai che è sbagliato collocarlo tra i Pop, nonostante che l’anno di nascita, 1935, autorizzi in pieno quell’inclusione. Meglio legarlo al precedente duo dei neo-dadaisti Rauschenberg e Johns, nel nome di una violenza che lambisce gli stereotipi, li corrode, ma non se ne lascia dominare, come invece avviene nei Pop Artisti tradizionali. A riprova di ciò, Dine riempie le stanze del percorso con una scrittura manuale rabbiosa, volutamente “cacografica”, come le pagine ingrandite di un brogliaccio steso da qualche scolaro indisciplinato. Nulla da spartire con i sottili, eleganti, ma stereotipati tubi al neon con cui uno degli apostoli del ’68, Joseph Kosuth, traccia nello spazio le sue scritture. E non c’è neppure un qualche rapporto con i “Writers” capeggiati da Keith Haring, anche loro rispettosi degli stereotipi, anche se legati alle icone della pubblicità. Questa onda impetuosa del “fatto a mano” trova conferma, nella presente rassegna, anche in alcuni dipinti rutilanti di colori, informali, selvaggi, con cui l’artista inframmezza le sue scritture. A completare una presenza, appunto nel segno della violenza e dell’aggressione, ci sono le cinque sculture, quattro lignee e la più grande, un autoritratto, in gesso. Ovviamente non si può mancare di ricordare in proposito la monumentale attività plastica di Oldenburg, che però si è guardato bene dall’affrontare il volto umano, in quanto non è un prodotto, un oggetto massificato, ma al contrario il prototipo dell’individualismo. Naturalmente, nel darci quei mascheroni quasi carnevaleschi, Dine conferma la sua chiave espressionista, come se si trattasse di ispirarsi agli idoli pagani dell’Isola di Pasqua. O ancora una volta, l’affinità, il rapporto di parentela, devono andare non certo in direzione della Pop Art ma, semmai verso i “nuovi selvaggi” tedeschi. Siamo quasi a una sfida o a una risposta rispetto alle statue che un numero uno di quel fronte, Georg Baselitz, sbozza alla brava su ceppi lignei. Va da sé che questo linguaggio compiaciutamente barbarico e trasgressivo contrasta in pieno con l’eleganza squisita e neodecadente dell’inquilino precedente, Ontani.
Jim Dine, House of Words, Roma, Accademia di San Luca, fino al 3 febbraio.

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