Arte

La rivincita di Carlo Corsi

Da qualche tempo vengo aggiungendo delle integrazioni alla magra maglia con cui, nella mostra in Palazzo Fava, ho tracciato la storia della Bologna dopo Morandi. Così ad esempio a Carlo Corsi (1879-1966) sono toccati solo due dipinti, troppo poco per raccontare adeguatamente l’unico artista che si può opporre, in tutta l’epoca tra le due guerre, al dominio morandiano, diversamente incontrastato. Per fortuna ora è in atto la nutrita retrospettiva che l’Associazione Bologna per le arti gli dedica nella Sala d’Ercole, l’unica iniziativa, seppure condotta solo a lunghi intervalli, con cui Palazzo d’Accursio assaggia la sua funzione di grande contenitore della nostra storia dell’arte, che gli sarebbe tanto naturale svolgere ma cui invece si sottrae con pervicacia. Corsi ha operato il riscatto di una vicenda petroniana, fatta di intimismi sfatti e leziosi, messa in atto dai Protti e Romagnoli e Pizzirani, contro cui la reprimenda morandiana è scoccata, forte e inesorabile a giusta ragione. Contro quelle false opulenze il pittore delle nature morte rapprese e solitarie reagiva rinchiudendosi in un austero silenzio penitenziale, invece Corsi accettava di abbandonarsi a un discorso sensuale affondato nei piaceri del cromatismo, ma sapeva trattarlo a larghe masse, a pennellate sovrabbondanti, capaci di sagomare i corpi, di portarne via le bellurie, così come da un volto di donna si sottrae un belletto soffocante e importuno. O meglio, nei suoi volti femminili rimangono forti e invasive, le macchie riservate ai tratti fisionomici, o ai caschetti delle capigliature, ma riportati a misure larghe, non prevaricanti rispetto agli sfondi, ai muri vegetali di giardini, o di spiagge invase da calda luce estiva. A quel modo Corsi celebrava un suo efficace postimpressionismo, o forse sarebbe meglio parlare di una aggressiva attitudine fauve, però senza strappi acuti, anzi, sempre pronta a rituffarsi in un’accogliente sinfonia di toni, di pennellate distese, capaci di dare spessore, rilievo tridimensionale a stoffe, oggetti, carne umana, con l’aiuto di chiazze di luce, quasi pronta a rapprendersi, a impastarsi con l’epidermide delle persone o con la scorza ammorbidita delle nature morte, rialzate le une e le altre dalle magiche strisciate-scudisciate di colore. Si sa che talvolta il nostro artista, per renderle ancor più consistenti, nutrite di spessore, le aggiungeva sui vetri da cui erano cinti e protetti come in teche gli abbozzi sottostanti. Quasi che in lui si rinnovasse la procedura tradizionale della “vernice”, ovvero la facoltà consentita agli artisti di rialzare i toni, di conferire supplementi di luce, intervenendo sul posto, sui dipinti appesi alle pareti, intrattenendo con loro un rapporto quasi di scherma, di corpo a corpo scattante e reattivo. Oltretutto questi tocchi supplementari insistevano su una capacità di stringere i corpi, di sciabolarli, di catturarli entro fasce trasversali, anticipando certe mosse di particolare audacia cui Corsi si sarebbe dato nel dopoguerra, celebrando a modo suo l’avvento di soluzioni sperimentali. Non la sagomatura geometrica del postcubismo, con cui gli sarebbe sembrato di recare offesa alla libera dinamica dei corpi affidati al plein air, ma la magia di collages, di cartoncini, forse sottratti a scatole di dolciumi e di profumi, e dunque del tutto adatti a celebrare, a esaltare i sottostanti tesori di sensibilismo che venivano, non a coprire, ma a evidenziare, correndo in aiuto e in supplemento alla golosa densità dei colori.
Carlo Corsi, Palazzo d’Accursio, Sala d’Ercole, fino al 9 febbraio.

Standard