Letteratura

Lucarelli: troppo ovvio, Watson

Non sono mai stato molto favorevole al nume locale (bolognese) Carlo Lucarelli, esprimendo una punta massima di diffidenza verso il suo prodotto più ambizioso in ambito narrativo, anche perché sottratto alla facile copertura dell’estensore di “gialli”: “L’ottava vibrazione”, reo fra l’altro di tentare le vie rischiose del romanzo storico. Ma mi ero ricreduto di fronte al racconto agile “Albergo Italia” dedicandogli ben volentieri un “pollice recto” sull’”Immaginazione”. Lo sfondo era quello della nostra ex-colonia, l’Eritrea, tra Asmara e Massaua, che al nostro autore è caro credo anche per ragioni familiari. Ma in quel caso la coppia costituita dal capitano dei carabinieri Piero Colaprico e dal suo attendente, anzi, nel dialetto locale, “zaptié” Ogbà, funzionava bene, affrontando oltretutto una trama accuratamente intrecciata, tra un falso impiccato e oscuri quanto astuti agenti segreti, con un buon rapporto tra storie locali e legami con la madrepatria e i suoi scandali. Purtroppo Lucarelli è stato impaziente, ha voluto replicare affrettatamente, ritornando sul “luogo del delitto” e riproponendoci la medesima coppia, però quanto là era ben assortito e piacevole, nella replica si appesantisce, Ogbà va sopra le righe, diviene davvero troppo astuto e intelligente, investendosi fino in fondo nella parte del Watson al servizio, anzi, alla guida di uno Sherlock Holmes, al dà di quanto gli detterebbe una saggia prudenza di sottoposto, oltretutto di colore. E’ inutile che il troppo bravo dipendente faccia lo gnorri, di fatto egli recita con un eccesso di immedesimazione la parte dell’abile coadiuvante, ed è lo stesso autore che a sua volta pretende di indossare i panni del proverbiale re di tutti i detective, carpendo anche una massima del suo repertorio: “non c’é niente di più innaturale dell’ovvio”. E’ quasi una “excusatio non petita”, nel tentativo di giustificare un “giallo” troppo debole e gracile, che molto promette al suo apparire, ma poi non mantiene, in quanto i fatti prendono proprio la piega che sembra logica a prima vista, contravvenendo al criterio dei legami occulti che emergono solo verso la fine. Il trucco di proteggere una lettera misteriosa mettendola sul tavolo in bella vista funziona una prima volta, ma non conviene abusarne.
Il racconto promette molto in partenza, si apre infatti con ben cinque morti sospette. Ci sono tre poveri indigeni impiccati ai rami di un maestoso sicomoro, e subito si aggiunge loro pure una figura ben diversa, del marchese Sperandio, uno di quei nobili pretenziosi che il regime spediva nelle colonie a incrementarne le risorse, magari, lo si sa bene, a proprio tornaconto, tosando spietatamente i poveri colonizzati. L’enorme sicomoro dalla chioma espansa funziona come un coperchio posto su una pentola bollente. Si aggiunge anche l’ulteriore cadavere di una megera che si direbbe sbranata dalle iene comparenti nel titolo. Solo che le iene sono metaforiche, semmai nella vicenda gioca un ruolo selvaggio, di esagerata ferocia un cagnaccio pericoloso, aggressivo oltre ogni limite. All’arguto Ogbà, scolaro sempre avido di apprendere, viene detto che quelle morti misteriose sarebbero come le tessere di un mosaico, ma il guaio è che questa volta le varie pedine entrano facilmente in combinazione, e nel modo più prevedibile. Il marchese, nonostante i dubbi di Colaprico, che lo aveva conosciuto in patria come persona colma di generosi progetti e slanci, si è ucciso davvero, sopraffatto dai debiti, dal fallimento della sua azienda. E risulta pure inutile sospettare della moglie, per quanto spietata e avida. Purtroppo il nobile, nella sua fretta di andarsene, non ha provveduto nemmeno alla compagna reale della sua vita in colonia, lasciandola nei guai, a cercare di procurare una qualche fetta di eredità alla figlia che ha partorito con lui. Quanto ai tre figuri di basso profilo, certo, sono stati fatti fuori, e se ne scopre pure la causa, per quanto inverosimile, con la loro uccisione si è voluto mantenere coperto un segreto, che cioè l’azienda di Sperandio, invece di produrre sani frutti agricoli, nascondeva nelle sue viscere una possibile miniera d’oro. O era solo un miraggio, una Fata Morgana, suggerita da qualche doratura di superficie? Insomma, le tessere si combinano secondo un mosaico del tutto prevedibile, senza dover ricorrere a doti di particolare perspicacia dei due investigatori, ovvero l’ovvio è tale, punto e basta, le nostre attese rimarranno deluse.
Fallito l’appuntamento con una soluzione ardita e inaspettata, che cosa resta, a voler salvare questa prova? Resta l’effetto verità, insito nei frequenti inserti delle parlate locali, ma subito accompagnate dalla traduzione nel nostro volgare, altrimenti incomprensibili, e il colorito dialettale che aduggia la parlata dei nostri connazionali, ma è una ibridazione che mostra la corda e si ripete in modi alquanto meccanici. Forse qualche momento di attenzione lo possono riscuotere certe pratiche di sesso selvaggio cui si danno i nostri bravi ufficiali, oppure certe sequenze di vita quotidiana, quando per esempio, invitati assieme al dominus Colaprico al desco del suo attendente, entriamo nella sua modesta magione, dove però una brava moglie ci ammannisce con fare sicuro qualche piatto locale, quasi invitandoci alla degustazione. Ma sono consolazioni limitate che non compensano la delusione provocata dal “giallo”, inevitabilmente affondante nella peraltro dichiarata ovvietà.
Carlo Lucarelli, Il tempo dlle iene, Einaudi stile libero, pp. 196, euro 18.

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