Arte

Magnasco: un mondo lillipuziano immerso nelle tenebre

Il viaggio virtuale di oggi, che ormai ogni domenica accoppio alla visita professionale di una qualche mostra, seguita da recensione sull’Unità, prende la via di Parigi, Galleria Canesso, dove si può ammirare una rassegna dedicata a Alessandro Magnasco (1667-1749), artista genovese che infatti, a seguito, la sua città onorerà accogliendo a sua volta l’ampia retrospettiva, in Palazzo Bianco. Due sono i motivi di grande interesse che si incrociano in questo artista. Per un verso, occupando in buona misura la seconda metà del Seicento, egli ne attesta il carattere di esasperazione del precedente clima barocco, dando luogo alla variante diminutiva, da fase ben consapevole di un suo destino ulteriore e in minore, detta appunto del barocchetto, dove si conferma la tradizione di immergere la scena in un’oscurità programmatica. In questa direzione l’apripista di una simile fase seconda è stato Mattia Preti, ora in mostra a Roma, mentre un più avveduto esponente di nuovi orientamenti si trova in Luca Giordano, pronto a riprendere, sì, le mosse aggrovigliate e gli arditi sottinsù del barocco, ma deciso anche a schiarirli, così aprendo la strada al maggiore interprete di quella congiuntura, chiamato a riempire di sé la prima metà del Settecento, Giambattista Tiepolo. Mentre un altro veneziano, pur di grande valore, come il Piazzetta, perderà il treno in quella corsa verso nuovi orizzonti persistendo nel culto di un tenebrismo seppure abile e virtuoso. Questo continuare nel ricorso a una tavolozza scura, terrosa, quasi sempre negata alla luce esterna, rotta solo da faci, torce, fuochi, cioè da luci artificiali che nel contrasto accrescono la forza dominante degli scuri, è però temperato dal fatto che il Magnasco abbraccia un carattere quale sarà presente e dominante nei migliori protagonisti del Settecento, alleato al loro chiarismo, a un “illuminismo” magari da prendersi alla lettera, senza troppe complicazioni filosofiche. Qualcuno ricorderà che poche domeniche fa ho celebrato, in una delle mie visite virtuali, il primato di Liotard, in questa propensione a “andare in bianco”. Ma se il Magnasco non schiarisce la tavolozza, accetta però un requisito di questa posterità “illuminista”, procede cioè ad animare la scena con una inondazione di figurette agili, saltellanti, vivaci come insetti, magari proprio rivelati da una torcia che fende il buio e provoca un fuggi fuggi di animaletti spaventati. In questo “fare piccolo” il Magnasco dà la mano a tanti suoi colleghi successivi, per lo più impegnati nel vedutismo, soprattutto di marca veneto-veneziana, da Marco Ricci ai grandi Canaletto e Bellotto. La geniale invenzione del microscopico regno di Lilliput, concepita dallo Swift, è in agguato, e si potrebbero fare i nomi anche di Hogarth con le sue incisioni colme di gusto aneddotico, e di Watteau con le sue feste galanti. Solo che, per effetto di quell’altra componente che si porta dietro, le figurette di Magnasco non possono concedersi alla calma, alla posa, magari soddisfatta di sé, dei loro compagni di via chiamati ad animare quel paesaggismo del tutto “in chiaro”. Il tenebrismo del barocchetto deve pur trovare una giustificazione anche nelle tipologie dei personaggi, che dunque devono essere allungati, allampanati, deformati, perfino caricaturali, svolgendo una implicita denuncia del clima vizioso, come per aria malsana, soffocante, che si respira in conventi, in mense troppo affollate, in refettori e convitti, dove magari sono già sequestrate e languiscono delle “monache di Monza”, Già, perché, sempre a voler tracciare una vicenda di fughe in avanti, il nostro Magnasco scavalca a rapidi passi l’intero clima illuminista e si porta ad anticipare il romanzo nero o gotico che si installerà nell’inghilterra di fine Settecento. Le fini di secolo sono per loro natura esagitate e irrequiete.
Parigi, Galleria Canesso, fino al 31 gennaio, poi Genova, Palazzo Bianco, dal 25 febbraio.

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