Arte

Per Mauro Mazzali

Ho avuto un eccellente rapporto di collaborazione con Mauro Mazzali nei molti anni in cui è stato direttore dell’Accademia di belle arti di Bologna, del resto proseguito tuttora col suo successore Enrico Fornaroli. Nei locali dell’Accademia Mazzali mi ha consentito di fare almeno tre edizioni della Biennale Giovani, e a turno con la sede universitaria di S. Cristina ha pure ospitato il Premio Alinovi, cui poi si è dovuto aggiungere anche il nome di Daolio. Ma questa serie di impegni di carattere organizzativo mi ha impedito di dare all’artista amico l’attenzione critica che gli era dovuta. Mi piace rimediare ora in occasione della mostra di opere sue che Mazzali ci offre nel foyer del Teatro Duse. Egli appartiene a una categoria che certo al giorno d’oggi ha molti seguaci, si può parlare di un iper-realismo, ovvero di un rifare la natura “più vera del vero”. Penso ai casi clamorosi di Piero Gilardi, che grazie al poliuretano nei suoi vari ortaggi preserva il carattere morbido. soffice al tatto degli oggetti rifatti, assieme alla loro pelle cromatica, provvedendo anzi ad accentuarne il colori a sfida del kitsch. Abbiamo la variante di segno opposto dovuta al duo Bertozzi e Casoni, che sfruttano a meraviglia le virtù della ceramica, sostanza dura, tagliente, ma perfettamente capace di strappare il vello cromatico delle cose, come fosse lo scalpo sottratto dagli Indiani alle loro vittime. Mazzali, tra questi opposti, tiene una navigazione intermedia, come lo è il materiale di cui si serve, la gomma siliconica, che sta proprio tra il morbido e il solido. Ma soprattutto conta nel suo caso la soluzione cromatica, che in realtà consiste in uno zero assoluto, in una acromia radicale, come se i suoi corpi fossero stati infarinati, o rimasti vittime di un crollo di macerie, di detriti, o appena riportati alla luce attraverso pazienti scavi archeologici. Forse, accanto allo zero cromatico, è da prendere in considerazione pure uno zero acustico e di ogni altra proprietà organolettica, il che fa dire all’artista che questi suoi fantasmi sono da definire “vite silenziose”, traduzione del termine che si usa nelle lingue germaniche, mentre le nostre “nature morte” rischiano di essere troppo fragorose, o adatte alla mimesi spinta che troviamo nelle opere di Gilardi e di Bertozzi e Casoni. Sugli oggetti di Mazzali c’è stata una lenta caduta di polvere, o magari di neve, di quella che fiocca lenta, non so per quante volte, in una famosa poesia del Pascoli. Altro carattere originale della modalità creativa di Mazzali è il fatto che queste sue vedute planimetriche prese su una distesa di oggetti espansi, distesi in bassorilievo, risulta per lo più rialzata dal suolo con delle basi che ne costituiscono una componente organica e imprescindibile, come se l’artista avesse trovato queste sue “vite silenziose” non già a un livello di grado zero, ma le avesse estratte dal suolo ricorrendo a quello che si chiama un carotaggio, ovvero, oltre alla visione di superficie, c’è un ampio tratto di terreno, o di terriccio colto in verticale, quasi per innalzare la veduta panoramica oggettuale e darle quel rilievo monumentale che diversamente le mancherebbe. A questo modo Mazzali rimedia anche a una certa reticenza a ricorrere, tra le varie soluzioni consentite dalla scultura, a quelle che si dicono “stanti”. Alcune opere svettano verso l’alto, prendendo decisamente la forma di arbusti o alberelli, ma in genere l’artista preferisce una sorta di afflosciamento, di ricaduta su se stessi, quasi che la terra madre volesse riprendersi quelle esili offerte che protende solo per un momento verso l’alto, pronta però a recuperarle, a inghiottirle, a farle sparire, quasi vittime di qualche movimento del suolo, terremoto o forse meglio, bradisismo, cioè movimento lento, quasi sfuggente allo sguardo. O è anche come quando un elevatore meccanico innalza a una giusta altezza qualche prodotto, ma poi gradualmente lo riporta a giacere a livello zero. Si pensa anche ai colonnini cosiddetti “dissuasori” che oggi si alzano e si abbassano, erigendosi d’improvviso o scomparendo, riassorbiti dal piano terra. E intanto le “cose”, nella loro ferma definizione, galleggiano su un mare di grigiore biancastro, pronte a essere infornate per una cottura, che però sarebbe un modo di fare loro violenza, e che pertanto esula dal codice di questa modalità operativa, di cui il silenzio è dote primaria.
Mauro Mazzali, Vite silenziose. Bologna, foyer del Teatro Duse, fino al 31 dicembre.

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