Arte

Pistoletto: una creatività inesauribile

Ritorno sui temi toccati domenica scorsa a proposito del volume relativo all’arte di Piero Gilardi e allo sfocio nella biopolitica con cui egli ha tentato di porre rimedio a un certo bloccarsi della sua vena creativa. Fino a un certo punto la vicenda di Piero è stata del tutto parallela a quella di Michelangelo Pistoletto: entrambi figli prediletti della Pop Art in versione italiana, e nella forma più autorizzata, con avallo venuto da Ileana Sonnabend, grande tutrice dei valori statunitensi su quel fronte, e pronta a mettere i due torinesi in squadra assieme ai colossi yankee della stessa famiglia, preferendoli rispetto ai più deboli esempi della Pop Romana. Entrambi artefici di soluzioni standard fin troppo felici, e anche premiate dal mercato, con la tentazione di non allontanarsene proprio per non recare danno a un’immagine di sé fin troppo affermata, Gilardi con i suoi lavori in gommapiuma ad alta fedeltà, Pistoletto con le sue superfici riflettenti che recano incorporati, all’interno, quasi come scalpi, o mosche imprigionate in un cristallo, le foto di ogni tipo di soggetti. Ma poi i due percorsi si sono differenziati, Gilardi, finito il momento di massimo consenso, suo proprio e del pubblico, ai tanto fortunati rifacimenti in gommapiuma, non è più stato in grado di rinnovarsi, se non a livello di prediche concettuali, o di volonterosi tuffi, appunto, nella biopolitica. Invece Pistoletto si è rimboccato le maniche, e, pur non cessando dal tornare a frequentare la sua soluzione ottimale delle superfici riflettenti, ha saputo rinnovarsi attraverso uno sperimentalismo sempre pronto a scattare, che addirittura non conosce un uguale in ambito nostrano. Se qui di seguito dovessi dar conto delle tante sue invenzioni, non la finirei più, ma posso partire proprio dalla fine, dalla grande Mela servita in tante confezioni, ultima e più persuasiva quella che si pone di fronte alla Stazione Centrale di Milano. Anche lui, in definitiva, parte da un omaggio alla natura, pronto però a offrircela riversata in qualche nuovo materiale di discendenza tecnologica, ma capace di variare nelle dimensioni, come invece riesce più difficile al concorrente, obbligato a trascinarsi dietro le più pesanti e ingombranti gommepiume. Qui la mela si gonfia, riesce ad essere davvero monumentale, nello stesso tempo mostra orgogliosamente l’affronto, il morso virtuale che ha subito, a simboleggiare l’eternamente ricorrente peccato di Adamo, che però la tecnologia tenta di rabberciare al suo meglio, con i segni di una volonterosa cucitura, da cui anche il titolo di “Mela reintegrata” Ma tante sono le tappe efficaci, prima di giungere a questo esito ultimo. Pistoletto, fra l’altro, è stato pronto a balzare nel carro vincente dell’Arte povera, come invece non è riuscito a fare Gilardi, magari, ammettiamolo, per coerenza col suo precedente operato di segno contrario. La “Venere degli stracci” di Michelangelo è un capolavoro esemplare che entra nella storia, con la doppia capacità di celebrare il trash quotidiano, attraverso il cumulo di stracci, da cui però svetta una Venere che dunque strizza l’occhio alla soluzione alternativa, al passaggio dal celebrare il più squallido “qui e ora” all’andare invece a recuperare il museo, dandosi così alla coltivazione dell’essere “altrove”, come nello stesso momento stava facendo, tra i membri DOC del poverismo, Giulio Paolini, effettuando un tipico rovesciamento dal povero al ricco, dall’attualità al recupero di valori auratici e mitici, il che presto sarebbe divenuto il contrassegno degli anni Settanta, in nome del postmoderno, del citazionismo, ovvero, per dirla secondo una mia etichetta, della “ripetizione differente”. Un clima cui Pistoletto ha partecipato pure con le sue sculture, sospese tra il recupero di forme michelangiolesche e invece una redazione in termini di brutalismo, in linea con i Nuovi Selvaggi Tedeschi. Del resto, Michelangelo non ha abbandonato neppure l’amato tema dello specchio, ma lo ha saputo rinnovare potentemente nella Biennale di Venezia del 2009, quando all’ingresso delle Corderie eravamo accolti da una schiera di specchi che a intervalli regolari di tempo l’artista veniva a infrangere, sfruttando le belle ragnatele, le “craquelures” che così si formavano, in delizioso omaggio al caso, come del resto aveva scoperto a suo tempo Duchamp, accettando che una frattura casuale solcasse il suo Gran Vetro. E che dire delle mappe geografiche, o delle tavole con invito ad assiderci e a contemplare certi diagrammi serviti quasi come cibi commestibili? E l’abile sfruttamento del simbolo di infinito, portato a serpeggiare liberamente nello spazio?. Magari, non sempre queste ciambelle sfornate senza sosta dalla premiata ditta Pistoletto sono saltate fuori con un buco perfetto, ma la cosa succede anche alle perle, quando nascono con bitorzoli e ammaccature. Nulla di male, si sa che in questo caso un vocabolo spagnolo le chiama “barocche”, e dunque in definitiva si casca sempre in piedi.

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