Letteratura

Problemi di “autonarrazione”

Ho già osservato, domenica scorsa, parlando del romanzo di Alberto Rollo, “Un’educazione milanese”, dell’infittirsi, in questo momento, e nella narrativa di casa nostra, di opere rientranti nel filone detto dell’auto-narrazione, o se si preferisce, dell’”autofiction”. Prova eloquente, il fatto che nella cinquina dello Strega appena assegnato ben quattro prove rientrassero in questa categoria, accomunate peraltro da una certa mediocrità. Per cui, al contrario, spiccava l’unica prova, di Matteo Nucci, già per il fatto stesso di uscire dalle righe. Del resto questo nutrito quanto esangue plotone fa corteo a una serie di produzioni ben più valide procedenti nello stesso senso, di cui mi sono occupato qui o altrove, vedi alle voci di Covacich, Mari, Brizzi e così via. Merita pertanto aprire un’indagine su un fenomeno così vasto. Come si sa, mi valgo con insistenza della bipartizione proposta da Spinazzola, tra un New Italian Realism e una New Italian Epic. Questa seconda via, di andare a pescare validi spunti nel passato, nella storia, o nel futuro, o comunque nell’altrove, richiede un forte investimento inventivo, e dunque appare ardua da battere. L’altra rischia di affondare nel trito e risaputo, e soprattutto di soffrire per una carenza della componente principale della “fiction”, cioè proprio della presenza di una trama, di un motivo “fittizio”. Seguire invece diligentemente una sequenza di fatti, propri o altrui, come si sono svolti, offre una specie di valida ringhiera di appoggio. Osservo, tra le righe, che io stesso, in una ripresa di attività pittorica, che ovviamente interessa l’altro fonte della mia persona, quello rivolto al visivo, avverto una medesima fatica a livello di invenzione autonoma di forme, e dunque seguo fedelmente la traccia di un “vero” quale mi viene fornito dalle foto del reale, oggi così abbondantemente ottenibili anche solo attraverso la pratica dei cellulari, Per questa via si potrebbe spiegare l’attuale eclissi di motivi “fittizi”, il che però non risolve il problema. In merito devo lodare la prontezza con cui “il Verri” ha fatto uscire un numero quasi unico intitolato appunto a “l’io in finzione”, con contributi che però trovo troppo analitici, affidati a speculazioni forse un po’ troppo sottili. Naturalmente, che al centro di qualsivoglia pratica di autofinzione ci sia il ricorso al soggetto di prima persona, non è certo elemento decisivo, anzi, tutti i cultori della critica narrativa sanno bene quanto sia forte, cogente l’avviso ai naviganti, non si osi confondere il Marcel che dice io nella grande “Recherche”, col Marcel Proust in carne e ossa, che pure ne è stato il tenace e instancabile produttore. Su un fronte opposto, anche l’”io di merda” proclamato da Céline esige lo stesso trattamento precauzionale, anche in quel caso bisogna distinguere tra il personaggio, che assume una maschera volutamente degradante, e l’uomo, come ci appare quando se la toglie. Ma allora, che fare? Come distinguere tra il “vero”, cioè una documentazione dei fatti, propri o altrui, che si affidano al criterio della precisione, della “storia”, passibili di rispondere a un andare a vedere coi propri occhi (questa in definitiva l’origine etimologica della storia, dall’”id” greco, della vista, che si cela dietro una “esse” assunta solo per ragioni di eufemia), e invece coefficienti “finzionali”, in cui cioè dal vero, storico, si passa al verosimile, tipico della funzione poetica? Aristotele in merito “docet”. Credo che tocchi all’autore distribuire in corso d’opera segnali, tracce, piste per indicare il crocevia, l’imbocco di una pista piuttosto che di un’altra. E al critico, al lettore spetta una decisione dello stesso tipo, stabilire in quale categoria, tra vero e verosimile, storia o finzione, si debba valutare quella certa opera. Voler affidare questo discrimine a una serie di indizi semantici, semiotici, formali è impresa forse troppo difficile e in fin dei conti sterile.

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