Letteratura

Rollo e l”autonarrazione”

Allo Strega di quest’anno si è creata una situazione curiosa, se si pensa che ben quattro delle cinque opere entrate in finale, e in attesa dell’assegnazione del Premio, sono di natura sospesa tra l’autobiografia, ora detta autonarrazione, e l’intervento di margini consistenti di “fiction”, sia nel senso tecnico, anglosassone della parola, sia anche nel volgare italiano di “finzione”. Sorge cioè l’interrogativo, fino a che punto gli autori parlano davvero di sé, o invece introducono elementi di invenzione? Questo vale sia per il primo arrivato nella votazione provvisoria, Paolo Cognetti, “Le otto montagne”, per Teresa Ciabatti, numero due con “La più amata”, e a seguire Wanda Marasco, “La compagnia delle anime finte”, Alberto Rollo, “Un’educazione milanese”. Unico a cantare fuori dal coro, Matteo Nucci col suo “E’ giusto obbedire alla notte”. Il problema si allarga a macchia d’olio se aggiungiamo a questa pattuglia non esigua altre autonarrazioni condotte da firme più celebri, di cui mi sono occupato o in questa sede o in quella ufficiale dell’”Immaginazione”. Mi limito a elencarne i nomi: Michele Mari, Mauro Covacich, Enrico Brizzi. Giunge pertanto del tutto a proposito l’ultimo numero del “Verri” intitolato proprio all’”io in finzione”. Questione difficile da risolvere, si potrebbe chiosare che forse basterebbe chiedere allo scrivente una “autodichiarazione”, dica lui, o lei, a lettori e critici in quale categoria si voglia porre, dato che i metri di giudizio cambiano, un lavoro autobiografico si colloca nella categoria del vero storico, mentre se prevale la componente della “fiction”, subentra il verosimile, come già Aristotele ci aveva detto.
In attesa della votazione allo Strega, di cui mi occuperò nei prossimi “pollici” per l’”Immaginazione”, comincio a parlare del contributo di Rollo, dato che la rivista di Manni ha un severo codice per cui non se ne possono recensire sulle sue colonne i libri pubblicati sotto la sua sigla. Attendo con curiosità di vedere come il prodotto di Rollo verrà collocato all’atto finale dello Strega. Se valutato al palo di partenza, non ci sono ragioni di anteporlo o posporlo ai suoi concorrenti. E’ nel complesso forse l’opera più pulita e onesta, ovvero, rifacendomi al tormentone di cui sopra, è quella che tende di più al polo della “storia”. Questa parola, vale la pena ricordare ancora una volta, deriva dalla radice greca ”id”, del vedere coi propri occhi. Discrepanza curiosa, dato che Rollo è stato a lungo il caposervizio della Feltrinelli proprio per la narrativa, e dunque ha visto sfilare sotto i suoi occhi decine di opere intente a praticare il valore contrario, il verosimile, l’invenzione, l’intreccio, piuttosto che la piatta documentazione. Forse Rollo si è comportato come lo chef di alta cucina, capace di consigliare o produrre piatti raffinati e complicati, che però quando si ciba personalmente preferisce un onesto salame e formaggio. E dunque, riferendosi al sottotitolo dell’opera in questione, “Il romanzo di una città e di una generazione”, c’è forse da togliere proprio il termine di “romanzo”, per il resto abbiamo un diario efficace, esauriente, ben articolato di una Milano, non certo da “bere”, ma anzi sondata negli anni duri del primo dopoguerra, quando forti erano i confini di classe, e il proletariato, da cui il narrante viene fuori, si trovava confinato ai margini, con esistenza, divertimenti, in una parola, possibilità di vita che risultavano in netto contrasto con quanto era concesso alle classi più agiate. Questo dramma sociale, puntualmente documentato, trova eco in tanti addentellati, mezzi di trasporti, edilizia, risorse. E dunque la testimonianza è davvero puntuale, fortemente plastica, anche per chi, come lo scrivente, non è proprio cittadino milanese, ma può vantare numerose frequentazioni della città ambrosiana, e quindi, attraverso i preziosi apporti dell’autore, può collocare tante tessere, seppure a ritroso, chiudere capitoli del passato, di cui gli sono giunte memorie, ricordi personali. Semmai, man mano che il narrante procede negli anni e si avvicina alla sua destinazione finale, di intellettuale posto in grado di lasciarsi alle spalle i limiti, le privazioni di un destino proletario, il discorso si fa meno convincente, anche perché sembra accelerare, come se Rollo, in definitiva, fosse riluttante a entrare nella funzione assunta, comportandosi, come si diceva, da cuoco più affezionato a certe diete semplici e alla buona, restio invece a indossare i panni di un agio e di una condizione superiore raggiunti. A fare da cerniera tra le due fasi può esserci l’incontro con Feltrinelli, e il dramma della sua tragica scomparsa, cui Rollo non manca di recare un commosso omaggio a posteriori. In proposito, gli potrei rimproverare che dai suoi ricordi di una Milano capitale dell’editoria egli ha escluso tutta la parte che riguarda la neoavanguardia e il Gruppo 63. Si sa bene che Giangiacomo ne è stato, fino alla sua scomparsa, l’affezionato e appassionato sostenitore, ma in queste pagine non compare traccia di quanto riguarda questa sua avventura. Per cui la mia preferenza va decisamente a favore dei capitoli in cui l’”educazione milanese” del Nostro si volge nel segno della penuria e del disagio.
Alberto Rollo, Un’educazione milanese. Manni, pp. 317, euro 16.

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