Letteratura

Tarabbia: una cronaca troppo passiva

Continuando nell’esame dei concorrenti al Premio Campiello, mi occupo ora del “Giardino delle mosche” di Andrea Tarabbia, un romanzo che, per arrivare subito alla conclusione, metterei al terzo posto in una graduatoria di merito, dopo Doninelli e Vinci. Ma soprattutto, mi colpisce il fatto che quest’opera ripresenta, e anzi ingigantisce un fenomeno riscontrabile sia nella Vinci, sia anche nel vincitore dello Strega, Edoardo Albinati, con la sua “Scuola cattolica”. E’ un fenomeno che mi ricorda lo stratagemma cui ricorre Giamburrasca, al momento di cominciare a stendere il suo proverbiale “Giornalino”. Preso dallo sgomento davanti alle pagine bianche, pensa di riempirle andando a ricopiare quando ha visto scrivere nei rispettivi album dalle sorelle più mature. Fuor di metafora, questi narratori, per fare grande, e diffidando della capacità di riempire le pagine con ricorso all’attualità, a una analisi esistenziale e piscopatologica degna dei nostri giorni, sono andati a prendere storie efferate fornite dalla cronaca, non riuscendo a cucirle con pagine autentiche, rivolte a fare i conti davvero con la problematica ora al centro dei nostri interessi. Albinati è andato a inserire la cronaca dell’efferato delitto del Circeo, la Vinci ha saccheggiato i referti di un crudele trattamento dei poveri alienati che si faceva in un nosocomio su un’isola della Grecia, e in definitiva lo stesso Doninelli si è valso di un divaricatore, rispetto agli ottimi referti su stati d’animo della nostra attuale situazione, andando a immaginare una catastrofe cosmica che si abbatterebbe sulle sue brave formiche indaffarate a vivere i loro drammi a una scala giusta. Purtroppo Tarabbia, su questo fronte, è il più estremista fra tutti, va a pescare negli annali la truce vicenda di un serial killer attivo negli ultimi anni della Russia sovietica, tale Andrei Cikatilo, autore, a quanto pare, di una settantina di delitti del tutto immotivati. Sarebbe come il caso di un Giamburrasca che non la smette nel ricopiare i dati altrui, non sperimentati in proprio, si sa invece che l’eroe adolescenziale a un certo punto ce la fa, a darci efficaci testimonianze personali, e in definitiva di questa medesima interruzione da una semplice opera di copisti di brutture registrate agli atti, anche i tre sopra nominati risultano capaci, il che li salva, dà respiro e validità ai loro rispettivi componimenti, mentre Tarabbia ci resta dentro, non ne esce a riprendere aria, a respirare un minimo di atmosfera in regola coi nostri anni. Il che determina il mio giudizio di inferiorità rispetto ai suoi concorrenti. Sia ben chiaro che non sono certo un lodatore di una narrativa che scorra via affidata a una piattezza e monotonia di banali vicende quotidiane, divrsamente non sarei un sostenitore di Ammaniti, di Covacich, di Brizzi, ma in loro il dramma, anche se cupo, anche se ripugnante, nasce dall’interno, per forza endogena, ovvero è lo stesso banale scenario della esistenza tale e quale a suscitarlo. Invece, andarlo a desumere di pari peso da orribili vicende già registrate agli atti, questo è il torto, l’errore, l’espediente non accettabile.
Anche se, dato questo torto incancellabile di partenza, bisogna riconoscere che Tarabbia ci sa fare, sia nel delineare la psicologia dell’assassino, che cela accuratamente ai familiari, e anche a se stesso, questa natura belluina all’improvviso emergente in lui. Perfino divertente è la furberia e solerzia con cui egli difende la sua onorabilità di perfetto “compagno”, rispettoso di quanto richiesto dal codice morale del regime sovietico, colto nei suoi ultimi tempi di esistenza. Plausibile, ben congeniata, l’anamnesi che ci spiega i vari traumi attraverso cui questo cittadino in apparenza modello giunge a concepire il suo volto diabolico. Perfetta la lucidità con cui i singoli delitti vengono ricostruiti, seguiti passo passo, anche negli abili tentativi dell’assassino di nasconderli, alla osservazione degli altri, e perfino a se stesso, data la doppiezza costitutiva della sua psicologia. Ma l’esercizio, per quanto ben condotto, pecca di gratuità, soffre di un dostoevskismo in ritardo, senza più la giustificazione di una eroica rivolta etica. Resta una pura collana di orrori fini a se stessi, anche se impeccabilmente esposti.
Andrea Tarabbia, Il giardino delle mosche, Ponte alle Grazie, pp. 126, euro 16,80.

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