Arte

Trini: un mezzo secolo ben presentato

Ricevo da Tommaso Trini “Mezzo secolo di arte intera”, raccolta dei suoi scritti dal 1964 al 2014, come spiega subito un sottotitolo. E’ doveroso da parte mia parlarne, puntando su tre motivi, oltre a tanti altri suscitati dal libro. In primo luogo, c’è da chiedersi se sia giusto pubblicare nel rispetto di un ordine cronologico interventi successivi magari su un medesimo artista, o se non sarebbe meglio rifonderli in un saggio integrale, approfittando anche della possibilità fornita dal computer di riscrivere senza procedere alla pratica noiosa del dover ribattere parola per parola. E’ un quesito che mi sono posto io stesso quando, molto tempo fa, ho raccolto sotto una triade di concetti, “Informale oggetto comportamento”, una analoga mia serie di articoli stesi a caldo sul filo delle occasioni, ma già allora mi sono giustificato osservando che è pur sempre significativo andare a vedere in quale momento si sono fatte certe affermazioni, magari in seguito modificandole. Ne viene cioè un quadro assai veritiero delle situazioni in atto, viste da vicino e scommettendo sul futuro. Siccome Trini una silloge del genere non l’aveva fatta prima, è stato del tutto autorizzato a farla ora. Tano più che in tal modo può raccogliere i suoi contributi affidati, subito al nodo cruciale del passaggio tra tardi ’60 e primi ’70, alla rivista “Data”, suo massimo sforzo editoriale condotto assieme alla moglie, troppo presto scomparsa con rimpianto unanime. “Data” ebbe il merito di chiamare a raccolta le migliori forze critiche allora in campo, unendo i nuovi arrivati, come lo stesso Tommaso, assieme a Germano Celant, e qualche altro più anziano già attivo da qualche tempo. Col che, siamo al secondo motivo di grande interesse del presente libro, il poter svolgere una riflessione sul peso delle generazioni sull’andamento dei fatti dell’arte. A dire il vero, tra l’autore, nato nel ’37, e me stesso, del ’35, e Enrico Crispolti, del ’33, lo scarto è minimo, eppure è stato di grande peso, tracciando quasi una linea divisoria. Crispolti, e i sopraggiungenti Menna e Boatto, e io stesso, per effetto di quel minimo anticipo di anni, ci siamo cimentati in primis sull’Informale, mentre Trini, assieme a chi come lui è arrivato immediatamente dopo, Celant, 1939, non si è occupato affatto dell’Informale. Ora, in questa silloge, trovo solo un tardo scritto su un protagonista di quella stagione, Vasco Benindi. La conseguenza è stata che l’accoppiata Trini-Celant si è trovata a poter intervenire con forze fresche, partendo quasi da zero, sulla situazione sessantottesca, Arte povera e affini, laddove noi, più anziani anche se di poco, ne siamo stati sorpesi e abbiamo dovuto procedere a una rapida riconversione. Trini in quel momento è stato generoso nel reimbarcarci, al che ha funzionato molto bene proprio la rivista “Data”, laddove Celant ha tenuto un cammino sprezzante e solitario. In particolare, io devo essere grato a Tommaso per avermi dato una mano quando, organizzando a Bologna la mostra “Gennaio 70”, muovevo proprio al recupero di una situazione che aveva rischiato di sfuggirmi di mano, e fra l’altro fu prodigo di un eccellente suggerimento, consigliandomi di attrarre i renitenti Poveristi a partecipare a quella mostra agitando ai loro occhi lo specchietto di allodole del ricorso a un precoce uso della videoarte, Devo dire, a mia auto-lode, che fui pronto ed entusiasta nel seguire questa via, accettandola in pieno, ed essendone ancora oggi un cocciuto praticante attraverso gli appuntamenti annuali del “videoart yearbook”. Del resto, la pervicacia è uno dei miei tratti tipici, dopotutto non fui completamente impreparato allo scoccare della temperie del ’68, mi era possibile rimettere sul fornello della cottura la categoria dell’Informale con cui ero nato, con un pronto adattamento, connotandola con l’aggiunta di un aggettivo, parlando cioè di un nuovo Informale da dirsi freddo o tecnologico, e mettendolo subito da parte la fase di mezzo, improntata al nume dell’oggetto, ovvero alla Pop Art e dintorni.
Il lieve scarto cronologico tra noi fa sì’ che in queste vivaci testimonianze di Trini non ci siano, se non sbaglio, contributi appunto ai momenti dell’Informale e dell’oggetto, tranne, in quest’ultimo caso, gli articoli dedicati a Pistoletto e a Gilardi. Ma poi il critico allunga i tiro e passa a seguire la nuova ondata, nel che è stato del tutto paritetico a Celant, ha gli stessi titoli di merito, ma forse un meno di tenacia e di capacità organizzativa, mentre il suo compagno di via ha manifestato le perfette doti di una sorta di amministratore delegato dell’Arte povera società per azioni, facendosene il solerte sostenitore, col merito, bisogna riconoscere, di aver continuato impavido per quella strada anche quando a metà dei Settanta è scattata la “mode rétro”, e quasi tutti i Poveristi si erano ridati alla pittura.
Se si fa appunto un discorso di capacità organizzativa, di tenacia nel sostenere una causa, nel promuoverla come si farebbe con un prodotto commerciale, Celant vince la partita tra i due, ma se si parla invece di qualità di scrittura, è l’altro che vince. Accanto al riconoscimento di una imperturbabile coerenza di rotta, ho dovuto deplorare il linguaggio critico di Germano, privo di palpiti, di emozioni, simile a chi stende un ricettario medico-farmacologico, con totale aridità di termini. Non sono un sostenitore della causa che il critico sia a sua volta un creatore, ma non deve neppure essere un compilatore di referti neutri, impassibili, schiacciati sotto un super-tecnicismo, cosa di cui appunto Celant dà ora ampia prova nelle noterelle stese sull’”Espresso”. Mentre su questo versante Tommaso ha le carte pienamente in regola, l’esatta collocazione stilistica è sempre condita con espressioni giuste, colorite, capaci di rendere il senso, la capacità di seduzione dell’opera, attraverso secchi, sintetici giudizi che però non sono mai distaccati, astratti. Mi limito a fornire qualche esempio, che del resto potrebbe essere ricavato da ciascuno di questi scritti. Zorio, “come monta la collera”. Fontana: “dall’opulenza alla negazione”, col grande merito di non lasciar cadere la stagione barocca dell’artista. Manzoni, “l’esistenza nuda da conquistare”. Paolini: “linguaggio enigma”. Warhol: “ritorno al culto delle apparizioni”. E dunque il percorso, pur nella pertinenza dei vari referti, è anche gratificante, cerca una opportuna compensazione tra la mente e i sensi.
Tommaso Trini,”Mezzo secolo di arte intera”, a cura di Luca Cerizza. John & Levi, pp. 354, euro 23.

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