Letteratura

Un “requiem” per i Pesci rossi di Emilio Cecchi

Di fronte alla riproposta di un’opera a torto o a ragione considerata un classico, si possono assumere due atteggiamenti: o prenderne lo spunto per una rilettura tale da mutare giudizi precedentemente emessi, o invece concludere nella conferma di un parere già espresso. Se mi rivolgo ai “Pesci rossi” di Emilio Cecchi, rimessi in circolo dall’editore Elliot, con una appassionata e troppo favorevole introduzione di Emanuele Trevi, per quanto mi riguarda confermo un giudizio dato da tempo, e del tutto negativo. Basta rivolgergli contro proprio le parole con cui lo qualifica l’introduttore, a scopo apotropaico, per negarne cioè l’appartenenza a quel tipo di opera in cui “… si è semplicemente raccolto un materiale disperso su giornali e riviste”. Tale invece appare essere, senza scampo questo libricino proposto negli anni ‘30 da Cecchi, fatto di brevi testi senza un filo conduttore tra loro, saltabeccanti da un tema all’altro, con esile fiato, nel che questo principe dei recensori e temuto critico militante, passando dall’altra parte della cattedra e tentando di indossare i panni dello scrittore in proprio, si rivelava più fragile, discontinuo, di corto respiro, pur nell’ambito già di per se stesso visto in seguito con giustificato sospetto, della cosidetta prosa d’arte o dei “capitoli”, o del rondismo, rispetto a ben più agguerriti concorrenti. La sua prosa infatti risulta nettamente inferiore agli esiti nervosi e ultrasensibili di una Gianna Manzini, o di un Bruno Barilli, e nulla a che vedere con l’ampiezza e incisività con cui Comisso sapeva raccogliere le cronache delle sue multiformi esperienze. Forse l’unico testo da salvare resta proprio il primo, eponimo dell’intera raccolta. La presenza dei pesci rossi, con il loro enigmatico offrirsi in primo piano, tocca davvero delle corde arcane, fa pensare a una invasione di creature da un altro mondo, magari pure evocando il “pericolo giallo” di cui allora tanto si parlava. Questo rifarsi a un ambito di esseri mostruosi ospitati in qualche zoo poteva essere una corda valida su cui insistere, come ci fa sperare il terzo brano, intitolato alle “Bestie sacre”, ma poi l’autore termina “in piscem”, con una battuta che crede ironica, rifugiandosi in un richiamo alla realtà banaleì e fin troppo domestica di un asino. La “Casa di campagna” ci inviterebbe a una ricognizione tra le nebbie del passato e della memoria, ma anche qui c’è un rude risveglio e un banale ammicco finale, quando arriva la confessione che, tra tanti cimeli dei tempi che furono, non si riesce a trovare una seggiola capace di reggersi su più di tre gambe. I ricordi di guerra sono stati materia di nutrimento per tutta la famiglia dei memorialisti, capaci di mescolare insieme lacrime di dolore e momenti di pace e di distensione. Invece il Nostro riesce solo a trarne un florilegio di canti di soldati, da cui i disastri della guerra se ne stanno lontani, esorcizzati dalla rima facile e consolatoria. Vengono in mente i giudizi sferzanti emessi contro la “Sor’Emilia” da protagonisti, magari a loro volta controversi e da riesaminare, come Giovanni Papini. Quale distanza mentale, morale, di trattamento sulla pagina, tra questi esigui accenni alla tragedia militare e la cronaca che ne seppe dare Hemingway, in “Addio alle armi”, un nome su cui, dalla sua tribuna fin troppo consacrata di critico militante, Cecchi talora emise giudizi favorevoli, ma talaltra, per esempio a proposito di “Di la dal fiume e tra gli alberi”, di portata addirittura ingiuriosa, e soprattutto sproporzionata, se si misura l’afflato di lunga vena e di ampio passo di cui era pur sempre capace il grande narratore nordamericano, anche se in un momento di incertezza, e invece le esili trame, i modesti pensierini di cui si mostra capace il suo re-censore. Il quale si permise pure di rovesciare torrenti di ingiuria e di disapprovazione quando un autore, in definitiva venuto fuori da quello stesso mondo asfittico della prosa d’arte, riuscì a salire a vette sublimi nel farsi testimone degli orrori bellici, alludo a Malaparte, e in particolare alle dolenti cronache della “Pelle”, su cui la Sor’Emilia fece piovere una ipocrita protesta, in linea col detto andreottiano che i panni sporchi si lavano in famiglia. Se talora compare un po’ di sporcizia in questi raccontini, si fa in un momento a spazzarla sotto il tappeto e a nasconderla alla vista. Il culmine della riprovazione Cecchi lo merita quando si fa beffe della scrittura sempre coraggiosa e avanzata di cui fu capace Marinetti nell’intero arco della sua carriera. La Sor’Emilia ne prende alcuni stralci e li addita al pubblico ludibrio come esempi di linguaggio del tutto incomprensibile, e dunque condannabile. Semmai, una qualche ragion d’essere si può riconoscere alle prose dedicate a viaggi e soggiorni in Inghlterra, dove Cecchi sembra assumere un ruolo non indegno dei reportages di cui era capace Bruno Barilli. Ma nel complesso, come consultivo di una possibile rilettura, pronunciamo pure, di fronte a queste esili prove un convinto “requiescant in pace”.

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