Arte

Una Biennale senza futuro

Un discorso sulla 56° Biennale di Venezia per me non può che cominciare nel nome di un atto di accusa, ormai mio solito, contro il monopolio ormai consegnato ai cosiddetti “curators”, categoria passibile di parecchi torti, e siccome l’attuale rappresentante di questa categoria, Okwui Enwezor, ne è il campione insuperabile, questi vari difetti in lui si sommano, e consentono anche di elencarli con cura, partendo dal presupposto che questi ottimi esponenti non vedono l’arte, in fondo non la amano, non vanno a visitare gli studi, non si fanno alcuna idea di dove si stia andando, ma sono mossi solo dalla preoccupazione di sbagliare se espongono troppa carne al fuoco. Quindi, primo punto, inventare un pretesto che da un lato consenta di riempire onorevolmente l’ingresso al padiglione centrale, apparendo “politically” o “esthetically correct”, salvo poi lasciarlo cadere per strada. Tre Biennali fa la pur brava Curiger aveva esordito con dei magnifici Tintoretto sul tema della luce, ma bravo poi chi ne avesse trovato qualche preciso riscontro nelle innumerevoli opere esposte. Gioni, la volta scorsa, ci ha offerto una serie di musei privati organizzati da soggetti autistici, senza dubbio coerenti e affascinanti, ma totalmente lontani dall’attuale scena dell’arte. Enwezor, essendo “the best”, è anche quello che spara più grosso, andando addirittura a ripescare Carl Marx, di cui propina una noiosa ed estenuante lettura integrale del Capitale. Sia ben chiaro che da Marx nessuno si può chiamare fuori, e forse è anche vero che negli ultimi tempi è stato alquanto trascurato, ma si dovrebbe rimediare con convegni, simposi, pubblicazioni, mentre il suo impatto sulle arti visive, almeno per chi ci crede, è nullo, e infatti anche in questo caso la sussiegosa proposta poi si perde per strada, altrimenti sarebbe venuta fuori una Biennale degna dello stalinismo. C’è qualche traccia in carattere, come per esempio le funeree bandiere del colombiano Murillo che pendono all’ingresso del padiglione, quasi che i Black Bloc se ne fossero impadroniti. E certo, in carattere con una Biennale “impegnata” sui temi civili, sulle ecatombi tanto spesso ordite nel secolo scorso, è la mostra di opere ben note di Fabio Mauri, col che, però, scivoliamo nel secondo difetto di questi grandi curators, la paura di rischiare, con la tendenza a riproporre “l’usato sicuro”, Forse Enwezor, intento più che altro a curare le personali pr, e ben poco attento al panorama italiano, non sa che da noi Mauri è stato ripreso a dovere, ma si sa, repetita iuvant, e dunque, proprio per viaggiare sul sicuro, è opportuno riempire un po’ di spazi con repliche. Fossi io il presidente della Biennale, ammonirei che non è lecito tornare a invitare chi ha già avuto un intero padiglione, ma questa regola non vale per chi appunto vuole riempire senza rischio, e quindi, alle Corderie, si apre col solito Bruce Nauman, con diritto di una presenza, almeno inversamente proporzionale alla sua caduta nell’insignificanza. E poi ci sono gli sfibranti documentari di Steven McQueen, e il “tutto pieno” dello svizzero Hirschorn, già ammirato l’altra volta nel suo padiglione. Vero è che personalmente protesto contro queste repliche quando non mi piacciono, o non più, gli artisti riconvocati al banchetto, tanto per riempire, mentre mi va bene se questi ritorni sono a vantaggio di artisti amati, come è nel caso di Boltanski, che alle sue ultime uscite avevo visto affaticato ad accumulare stracci di vittime di qualche olocausto, mentre ora ci si ripropone con un frusciante spettacolo di campanelli, come anime al vento. E viva anche Chris Ofili, sicura testa di serie di un rilancio del decorativo. Ma a questo punto scatta un altro dei difetti dei curators, forse il principale, che mancano al dovere elementare di tentare di fare ordine, di collocare gli artisti prescelti secondo filoni o tendenze, sottoponendo invece il povero visitatore a continue docce scozzesi. Per esempio, nel padiglione centrale tanto spazio è concesso all’insopportabile, asettico Hans Haacke, pare quasi di essere entrati per sbaglio nella stanza dei bottoni di qualche banca, non importa se invece questo duro tedesco è animato da feroci propositi di denuncia, tanto, i graffiti, i diagrammi sono sempre ugualmente inespressivi. Invece, lì a pochi passi, c’è una deliziosa sala di Marlene Dumas, con una serie di teschietti abbozzati con tocchi rapidi, meravigliosa resurrezione della pittura, che avrebbe meritato una attenzione specifica, Nel futuro, su cui Enwezor si guarda bene dall’indagare, nonostante il titolo che ha dato alla sua Biennale, c’è proprio un possibile ritorno della “vecchia signora”, nel cui segno oltretutto si chiude magnificamente la sfilata delle Corderie, con una serie di Baselitz impiccati al solito con la testa in giù, ma figure smagrite, come sacre icone, come veroniche tenute a fior di pelle. Perché, insisto ancora, non collegare questi due volti di un magnifico ritorno del dipingere? Non sia mai! Solo noi professorini possiamo preoccuparci di condurre questi ravvicinamenti stilistici, un curator deve spezzare i cambi con sovrano disprezzo, e poi infilare dovunque una marea di foto e documenti e video, quasi sempre senza anima. In realtà, a ben vedere, il nostro supercurator, anche se nero di pelle, è al suo interno un WASP, e cioè ragiona procurando che il connotato anglosassone sia dominante. Si vadano a contare le presenze, in questa numerosa rassegna, e si vedrà che appunto gli artisti USA, o della Gran Bretagna, magari con a latere australiani, e poi un paese forte degno di cooptazione come la Germania, sono prevalenti. Fra l’altro, proprio a uno yankee non poteva sfuggire il primo premio, andato infatti alla neutra e incolore Adrian Piper, alzi la mani chi l’ha notata passeggiando nelle le varie sale. Il “bianco”, per carità, in questo caso non vuole avere alcun connotato razzista, ma rispondere semmai alla frase dell’”andare in bianco”, che alla fine resta l’opzione prediletta dai curators, a questo modo non si sbaglia mai, e il “puritano” della formula WASP corrisponde all’insistere sul bianco e nero di foto e video, o con colori sì, ma che siano quelli dei soggetti trattati, nulla di personale.
Naturalmente, essendo tante le caselle da riempire, ci sono pure le cose buone, ci mancherebbero altro. Per esempio, emoziona vedere i progetti del maggiore tra i Land artisti, Robert Smithson, troppo presto scomparso. E la foto trova ampia giustificazione quando sia usata da Andreas Gursky, che la rende opportunamente “foisonnante”, travolgente, L’”usato sicuro” riguarda anche le pochissime presenze italiane, mi pare che ce ne siano solo tre, oltre al caso legittimo di Mauri. C’è il cannone di Pascali, che però spara a vuoto, del tutto decontestualizzato, e le brave, sì, diciamolo pure, Rosa Barba e Monica Bonvicini, due banchettanti fisse a questi raduni, con un posto a tavola, che però se lo meritano, mentre un altro tra gli ospiti obbligati è lo stucchevole Tiravanja, che questa volta raggiunge il colmo della noia offrendo una serie di foto, degne del comune grigiore prevalente, poi ricopiate a mano con la diligenza di uno scolaretto di molta buona volontà ma di scarso talento. Un’altra vecchia gloria che bisogna continuare a salvare è il belga Brodthaers, infatti i curators sono anche una società di salvaguardia e tutela dei mostri sacri, del tutto restii ad adottare il renziano criterio della rottamazione.
Al solito, le Corderie sfuggono al grigiore mortuario, seppure con lodevoli eccezioni, che domina sul Padiglione centrale, sempre il più esposto agli astratti furori del direttore di turno. Per esempio, subito all’inizio l’algerino Abdessemed ci propone varie panoplie di strumenti taglienti, gli stessi che un Nauman d’altri tempi non avrebbe esitato magari ad applicare a se stesso, mentre ora se la cava con un insulso spettacolo di neon pirotecnici. E poi, a bilanciare il predominio del WASP, ci sono tanti asiatici, cinesi, coreani, sudamericani, che in genere hanno il tocco leggero, la fantasia aguzza, da loro davvero ci si può aspettare molto futuro, che invece è precluso agli squallidi e ripetitivi esponenti del WASP, che proprio per questo hanno bisogno della premurosa assistenza del curator di turno, ma per carità, che questo appoggio non appaia troppo scoperto, che sia opportunamente inframmezzato con inserzioni dal terzo mondo, purché queste non pretendano di mutare gli equilibri planetari.
Alla prossima volta una visita ai padiglioni dei vari Paesi, cominciando con quello italiano, meritevole di molte riflessioni di principio.
All the World’s Futures, Biennale di Venezia 2015, Marsilio, voll. 2, euro 99.

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