Arte

Una lezione magistrale di Bernard Aikema

Da una quarantina d’anni passo il mese d’agosto a Cortina d’Ampezzo, dove ho tentato di rilanciare il mito degli incontri che, negli ultimi decenni del secolo scorso, si tenevano al Grand Hotel Savoia, dove comparivano regolarmente, tra gli altri, personaggi come Domenico Porzio e Giancarlo Vigorelli, e a fare gli onori di casa regnava già allora un ottimo presentatore di libri, Ennio Rossignoli. In collaborazione con lui, svolgo in ogni mese d’agosto un programma limitato di conferenze, che si valgono anche della collaborazione di sua moglie, Giovanna Coletti, amministratrice comunale a Pieve di Cadore dove ha abilmente messo a frutto il luogo natale di Tiziano creando un Centro Studi nel suo nome. Figura dominante, in questo Centro, lo storico dell’arte olandese, ma saldamente impiantato nella nostra università, a Verona, Bernard Aikema, che viene ogni anno a tenere appunto in quell’Hotel delle lezioni davvero magistrali. Ed è proprio dell’ultima, di venerdì scorso 12 agosto, che ora voglio parlare, dedicata a Albrecht Dürer, di cui lo studioso italo-olandese si appresta a organizzare un’ampia mostra al Palazzo Reale di Milano, prevista per gli inizi del 2017. Della sua eccellente conferenza, voglio qui ricordare e commentare alcuni punti salienti. Col suo piacevole senso dello humour, il nostro studioso ha messo in evidenza una ironica contraddizione. Il regime hitleriano aveva fatto di questo artista il perfetto rappresentante della nobiltà della razza germanica, ma in realtà il padre era di nascita ungherese, il che offre una eloquente smentita, per fortuna, del mito dei valori del sangue. Più importante, invece, la stessa professione del padre, di orafo, da cui viene sicuramente il segno tagliente e acuminato di cui Dürer ha fatto uso in tutta la sua carriera. Altro tratto saliente, il suo impulso a saltare fuori da uno statuto artigianale, quale conveniva all’attività paterna, per sollevarsi ai fastigi di una condizione di umanista. Lo testimoniano i due splendidi autoritratti che ci ha dato, sul finire del ‘400, presentandosi frontalmente a noi, e col coraggio di firmare, di affermare la sua personalità. Con pieno possesso dei dati filologici, Aikema cancella un preteso primo viaggio a Venezia, sempre sul finire del ‘400, mentre non ci sono dubbi circa la sua presenza nella Serenissima attorno al 1505, a lanciare un guanto di sfida contro l’esercizio del Rinascimento “more italico”. Ma questo è il centro del problema. In merito riaffermo quello che è un mio tema ricorrente, è l’ora di farla finita con un termine sfocato e generico come quello di Rinascimento, che si estende a dismisura a coprire ben due secoli, il Quattro e il Cinquecento, e che poi risulta mendace, in quanto i molti artisti di quel lungo tempo vanno ben oltre la classicità greco-romana, inaugurano invece la modernità, come del resto molto bene ci insegnano i manuali scolastici. E dunque, facciamone una questione di modernità, che proprio grazie al campione tedesco si svolge in due potenti modalità, quella nordica, e l’altra, non diciamo italica, in quanto dobbiamo distinguere la parte del nostro Paese che segue l’insegnamento dureriano, nelle province del Nord, quelle da lui stesso frequentate, e invece l’esercizio molto diverso che si impone, ma solo nel triangolo Firenze-Roma- Venezia, e che ha ovviamente in Giorgio Vasari il grande interprete o addirittura legislatore a posteriori, in cui rientra anche una precisa e motivata condanna della via tedesca. Il Vasari italianizza il nome del tedesco in Duro, ma forse lo fa con malizia, dato che sta proprio nella durezza del segno il tratto distintivo tra le due modernità, e lo scontro si consuma in modo drammatico proprio a Venezia, dove Dürer porta la pienezza del suo stile affidandolo alla “Madonna del Rosario”. C’è senza dubbio un tramando, dalla maestria di un Bellini, in quanto anche in quella tavola al centro si erge un baldacchino che viene proprio dalle opere belliniane, ma poi la scena è affollata, gremita di personaggi, per la buona ragione che Dürer vuole avere occasione di sviluppare la sua abilità ritrattistica, riempire lo spazio, allontanare, proscrivere i valori atmosferici. Questi invece sono particolarmente ricercati dalla versione vasariana del moderno, e la Pala giorgionesca di Castelfranco ne è la versione perfetta, anche se prima del tempo. Appena due personaggi, accanto al trono della Madonna e Bambino, ma proprio per dare via libera all’abbraccio di un cielo vasto, che smussa in confini lineari. Dürer al contrario, puntando sulla sua superiore capacità grafica, non vuole concedere nulla alla forza stemperante, ammorbidente dell’aria, la espelle, niente deve impedire che si dispieghi il segno duro, metallico, separante. Venezia è il teatro di quello scontro epocale, che costituisce anche la chiave di volta per intendere a dovere lo svolgersi delle due modernità contrapposte. Il giovane Tiziano non è esente dall’apprendere qualcosa, dal maestro d’oltralpe, in una giovanile xilografia, che però resta un unicum, in quanto ben presto il Vecellio si erge a campione del tonalismo, vuole cioè che i corpi si intridano di atmosfera, e che i colori celebrino il grande matrimonio tra la carne e quanto la circonda e sfuma. La vittima illustre di questo scontro titanico è Lorenzo Lotto, nato proprio sulla Laguna, ma, nel suo primo tempo trascorso in provincia, è sottoposto a una precisa attrazione dell’insegnamento dureriano, che dunque si porta dietro e cerca di imporre a Venezia. Ma alla fine la Serenissima adotta appunto la maniera tipica del Centro Italia, e mette in fuga il Lotto, per lui non ci sarà audience, committenza, in quella città, dovrà andare a cercare miglior fortuna risalendo verso i territori nordici, a cominciare da Bergamo, oppure discendere la costa adriatica, per andare cercare luoghi in cui la maniera moderna “more vasariano” non sia ancora giunta, come Recanati e Loreto. Però, nonostante questa strategica partizione, la modernità resta un valore unificante, per esempio nella pratica del paesaggio, intinto di valori allegorici, una partita che accomuna Dürer, Lotto, e il Giorgione della “Tempesta”, come Aikema ha dimostrato assai bene della sua conferenza. Però in proposito scatta più che mai la biforcazione, i paesaggi dei primi due, inutile dirlo, restano duri, metallici, inossidabilu, laddove la variante giorgionesca affonda quasi in un anticipo di “plein air”, attraversa i secoli, si spinge in avanti, fino quasi a toccare l’ultimo episodio della modernità, l’Impressionismo.

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