Arte

Vacchi: ipotesi per una retrospettiva

Si è spento qualche giorno fa Sergio Vacchi, appena raggiunti i novant’anni (era nato nel 1925), ed è doveroso che io gli renda omaggio, ricordando la molta vicinanza che ho avuto con lui in varie fasi della sua animata carriera, con relativi interventi per presentarne mostre e altre apparizioni. Ma queste poche righe sono solo una specie di memorandum in vista di una grande e completa retrospettiva che gli si dovrà dedicare, un obbligo che si pone particolarmente alla “sua” Bologna, da cui si era allontanato, dapprima per recarsi a vivere a Roma, e poi ritirandosi nella solitudine di un castello toscano. Ma la città petroniana gli era rimasta sempre nel cuore e la teneva di mira da lontano, anche se proibì sempre, a me e ad altri suoi aficionados, di assolvere al dovere di dedicargli una ricostruzione totale del suo industrioso ed esagitato percorso. Ci arrivammo molto vicino, attorno al 2006, quando nella Giunta Cofferati, che tante speranze accese in tutti noi, salvo a deluderle profondamente, a fianco del leader sindacale apparve un bolognese DOC, anche se pure lui deviato su Roma, quale Angelo Guglielmi, mio fratello in militanza culturale, anche se animata da fiere dispute inter nos. Ma per un momento, lui divenuto allotrio, io residente ad oltranza, fummo d’accordo che bisognava collaborare celebrando alcune grandi presenze nella storia della nostra città, come proprio Vacchi, e una figura simile a lui per le continue mutazioni di pelle come Mattia Moreni, anche se procedente lungo itinerari totalmente diversi. Ma Vacchi stabilì con noi un “tira e molla”, dichiarando che senza dubbio Bologna gli doveva un omaggio di grande formato, però al momento qualcosa del genere era già in programma a Roma, e quindi conveniva aspettare, rimandare ad altra occasione. Invece quella mostra in grande stile nell’Urbe per lui non venne mai, e la possibilità di farla, per esempio nel nostrano Palazzo del Podestà, andò perduta. Quanto a Moreni, ci si mise di mezzo la vedova del suo secondo matrimonio affermando che Bologna era indegna di ospitare un tanto artista, per il quale erano in lista d’attesa i maggiori musei d’Europa. Questi invece risultarono in tutt’altre faccende affaccendati, e io e Angelo, venuto meno quel vincolo solidale, quel pegno da pagare a fantasmi di un nostro comune passato, ci demmo a litigare, come si conviene a fratelli, concordi e solidali non oltre un certo punto. Ora che entrambi, Vacchi e Moreni, sono scomparsi, il dovere resta, a carico di una Bologna, che però appare pigra e incerta, soprattutto a livello di enti pubblici, Comune, Regione, magari anche Area metropolitana. E si aggiungerebbe pure il dovere di rendere onore a un altro caro estinto legato alle nostre sorti, anche se pure lui andatosene in esilio, Vasco Bendini.
Ecco dunque una smilza scaletta dei passaggi che questa ipotizzata e auspicata retrospettiva generale dovrebbe rispettare. Sergio, fine anni ’40, primi ’50, aderì come tutti alle indicazioni del postcubismo, che apparivano come il passo obbligato per entrare nell’agone di un’arte finalmente sottratta ai limiti dell’autarchismo imposto dal passato regime, e dunque il nostro artista mise in azione il suo gigantismo smodato erigendo nude impalcature, e così impostando fin da quel momento una sfida con l’altro Sergio di casa nostra, Romiti, che invece nel clima postcubista si trovà del tutto a suo agio, offrendo un ben calibrato montaggio come di macchine utensili, di fornelli a gas, di bilance per pesate sottili, e, venendo subito premiato da un consenso generale, da Cesare Brandi a Maurizio Calvesi, pronti a scorgere in lui l’erede ideale delle cuccume e scatole morandiane, tradotte nei termini della nuova grammatica, dell’esperanto con cui al momento sembrava che l’Europa dovesse trovare la sua unità. Il maggiore interprete nostrano di quella stagione, Francesco Arcangeli, non mancava di rendere anche lui un tributo al senso di misura e di equilibrio così bene espressi da Romiti, sentiva però che i tempi richiedevano tutt’altro, e così passò a predicare il suo Ultimo naturalismo, dove lo stesso naturalismo della ben nota tradizione longhiana doveva però farsi smodato, eccessivo, il che calzava a pennello col bisogno di Vacchi di fare grande, e dunque egli si affrettò a rivestire i suoi nudi tralicci con tanta pesante, densa, raggrumata sostanza clorofilliana, prendendo spunto da brani domestici di natura, dai muri vegetali che gli offrivano i Giardini Margherita. Ma ben presto sia Momi, sia Sergio al suo seguito, compresero che non era sufficiente coltivare un paesaggio tenuto stretto da argini di protezione, e che la stessa colorazione clorofilliana era insufficiente, i tempi richiedevano di affondare nella biosfera, di mettere a nudo organi palpitanti, enormi mostri carnali. L’Ultimo naturalismo, insomma, doveva assumere le sembianze ben più aggressive dell’Informale, divenire “autre”, come insegnava Michel Tapié. Vacchi per parte sua si prese come riferimento Wols, ma esasperandone, ingigantendone quasi col pantografo le perlustrazioni in un mondo di viscere, di palpitanti frattaglie.
Però l’Informale, sul finire degli anni ’50, se ne stava andando, ovvero non bastava più soffermarsi su spettacoli organicisti fini a se stessi, conveniva esplorare certe “possibilità di relazione”, secondo la intelligente formula lanciata in quel momento da Crispolti, e seguita, in uscita dall’organicismo della stagione informale, da tanti giovani e meno giovani. Tra questi Vacchi, che puntò direttamente a praticare una nuova figurazione, con parecchi rischi, come di essere catturato nelle spire di quello che venne anche denominato, da Achille Perilli, e con manifesto dileggio, un nazional-surrealismo, roba insomma da lasciare a un altro bolognese emigrato a Parigi, Leonardo Cremonini, e a tutti gli inconsolabili critici della sinistra marxista ortodossa, ormai rassegnati ad abbandonare le indifendibili trincee del neorealismo, ma pronti a salvare, almeno, l’obbligo di tracciare figure ben fatte e riconoscibili derivanti da un Surrealismo edulcorato e reso di facile lettura. Invece, le figure del nostro Sergio, rimasero sempre mal fatte, deformi, aggressive, denunciando anche certe deficienze di un pittore self-made, che non aveva fatto i buoni studi, e che dunque delineava volti e corpi in modi sommari, barbarici, invece che sapientemente definiti. In ciò peraltro stava la sua ancora di salvezza, oltre che in una sincera adesione a miti, leggende, simboli, ma da non prendere mai, anch’essi, per il verso giusto e ufficiale, bensì procedendo sempre a una loro demistificazione. Tipico per esempio il suo infatuarsi del consenso ottenuto, in quei primi ’60, dalla predicazione di Papa Roncalli, col suo Concilio innovatore, così da dedicargli un ciclo completo di immagini, sempre di grande formato, quasi dei murali, anche se prodotti su tela e stesi coi colori a olio, ma arricchiti di porporine e di dorature. L’omaggio al Papa Buono, beninteso, era double face, infatti consisteva nel tramutarne il beato faccione in un teschio digrignante, quasi a voler scoprire il trucco presente ogni qual volta i Papi, e con loro la Chiesa cattolica, vogliono mostrarsi a noi in modi suadenti. Il non-conformismo di Sergio ha sempre voluto che non si stesse mai ai giochi ufficialim che non si prendessero mai le carte pr il giusto verso, ma si andasse a vedere quanto di mortuario si celasse ogni volta dietro pur accoglienti sembianze. Mi capitò di essere da lui chiamato a introdurre la sala che gli venne data alla Biennale di Venezia del ’64, dove troneggiava appunto un Giovanni XXIII con macabra evocazione, e connesso sapore di scandalo, tanto che il Patriarca di Venezia vietò ai fedeli di andare a visitare quel dipinto profanatore. Esso invece, da quell’anno, domina ancora una parete di casa mia. In seguito, per un abbondante mezzo secolo, Vacchi non ha fatto altro che istruire questi suoi processi, o autodafé, o caccia alle streghe, o invece chiamata in scena di eroi propizi. Con un senso largo dello spettacolo, quasi si recasse a Cinecittà a rubare gli sfondi, gli apparati scenici, o si valesse dei preziosi consigli di Fellini, gareggiando con lui in spropositati fasti barocchi, apprestando palcoscenici favolosi, inondati di fiotti di luce spiritata ad animare dei fondali di tenebre da cui emergono volti e corpi dei maggiori protagonisti della storia e della cronaca dei nostri giorni, rubati alle fotografie di attualità. Ma l’iperrealismo dei loro tratti, nel trasporto sulla tela subisce un opportuno processo di imbarbarimento, come potrebbero fare dei selvaggi cacciatori di teste, che dopo averle decollate le sottopongono a un trattamento di mummificazione che ne raggrinzisce la pelle, li trasforma in sparuti fantocci, magari da innalzare come spaventapasseri. Credo che con tutta questa produzione dobbiamo ancora fare i conti, magari vincendo un primo senso di ripulsa che ci afferra, notando appunto quanto sia rozza, barbarica, incolta la presa di possesso condotta da Vacchi su quei manichini, che però in definitiva ci appaiono più veri, più incalzanti, nel loro orrore, rispetto alle madamine e gheise troppo ben educate che frattanto stava eseguendo proprio nell’Urbe il talento fin troppo acclamato di Balthus. Vacchi è di quegli artisti che spesso sbagliano, o vanno fuori misura, ma se ci prendono, infilano risultati che fanno presa, non danno riposo, ci incalzano da vicino.

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