Letteratura

Baldini: un narratore consapevole dei suoi limiti

Ricevo da Einaudi stile libero l’ultimo romanzo di Eraldo Baldini, “Stirpe selvaggia”, che non può certo godere di un mio pieno favore, quando anzi entra in una lista di prodotti da me sempre visti con diffidenza. E’ la lista che comprende le opere di Salvatore Niffoi, Michela Murgia, Marcello Fois, colpevoli, seppure in misure diverse, di cedere a motivi folclorici e ancestrali della narrativa delle rispettive regioni. E queste non possono non essere legate a un Meridione, la Sardegna soprattutto, dove non per nulla le tradizioni ottocentesche sono più forti e consistenti, forse proprio per la natura insulare delle terre che le proteggono e custodiscono. Ma il dato limitante nelle prove di quegli autori sta nel fatto che l’eredità dal passato non se ne sta buona e tranquilla nella sua posizione di riserva, ma entra in collusione con prospettive più aperte, più disponibili al progresso, fino a sfiorare o a colludere con motivi di attualità. Anche per la ragione che in genere questi romanzi adottano una misura “per il lungo”, accompagnando i rispettivi protagonisti da momenti iniziali, della nascita, o addirittura di stati prenatali, fino a sfociare in un panorama di oggi, in cui trovano notevoli difficoltà a coabitare. Baldini, rispetto a questi esiti, presenta qualche vantaggio, magari per un iniziale passo indietro, nel senso che chiude la sua vicenda dentro un “piccolo mondo antico”, non raggiunto, o sfiorato solo marginalmente, dal progresso, dall’attualità. Siamo in questo caso in ambito romagnolo, dove si agitano tre personaggi, dichiarati inseparabili, Amerigo, Mariano e Rachele, ma appunto il narratore li tiene debitamente “sotto coperta”, non li sporge fuori da una serie di vicende legate al buon tempo antico, a una prospettiva fatta di povere località montane, dove si guadagna la vita a caro prezzo, cercando di cogliere i frutti della terra e del bosco, in una dura soggezione alle vicende stagionali, tra freddi glaciali e calure estive, gli uni e le altre a stento sostenibili. All’interno di storie di ordinaria miseria e afflizione Baldini riesce però a inserire elementi “mitici”. Il più strampalato tra i quali sta nella circostanza che Amerigo è nato da Giulia, a suo tempo costretta a fare la serva tuttofare di una padrona esosa e pretenziosa, che se l’è portata dietro in una carriera di cantante svolta addirittura negli Stati Uniti. E qui si pone l’evento mitico per eccellenza, inverosimile ma vivificante, come una salutare scarica elettrica. Giulia, una sera, rientrando nella sua camera d’albergo, è stata aggredita addirittura dal leggendario Buffalo Bill, che l’ha messa incinta. Da qui il segreto, che ben presto diviene pubblico, Amerigo è figlio dell’eroe del western, anche se da questi a stento riconosciuto solo con la concessione di una moneta d’oro. Ma tanto basta perché il rampollo venga da tutti ribattezzato col nome di Bill, e condannato a essere il degno erede di tanto padre, forte e ribelle, intollerante di ogni gerarchia, in continua rivolta contro le autorità a difesa dei deboli e oppressi. Meno sconvolgente la storia di Rachele, nata in mezzo alle selve, a cogliere i rumori, le minacce, i brontolii del mondo animale e delle tempeste meteorologiche. Il più normale dei tre è Mariano, che però, proprio per tale ragione, risulta essere anche il più debole e indifeso. Il benessere familiare di cui gode lo rende inetto alla vita, sempre bisognoso degli interventi di Bill, come di un fratello maggiore, che a sua volta si trova ad essere pesantemente svantaggiato sul piano economico. Questo l’organigramma delle tre esistenze, che vengono saggiate a intervalli regolari, ma che per fortuna, come già detto, non sono mai tirate fuori da uno sfondo ben collaudato di vecchi riti e storie. Magari Baldini non si sottrae al rischio di incontrare di tanto in tanto sulla sua strada virtuosa, ben inserita nei limiti che si è posto, degli esempi di grande statura con cui subisce la tentazione di misurarsi, ma sempre con timida cautela. C’è un capitolo riservato alla Grande Guerra, dove Bill milita da “ardito”, forte e generoso, come si conviene a un figlio di tanto padre, non mancando però di subire ferite che lo portano a un ricovero a Milano, dove incontra un tale Ernest, e dunque l’ombra del grande Hemingway si stampa sulla fragile navicella del membro numero uno della “stirpe selvaggia”. E un ricordo di Hemigway ritorna anche in chiusura, quando Bill e Mariano, finalmente riuniti, decidono di frapporre insieme una estrema resistenza ai Tedeschi invasori, per mettere in salvo la loro amata comunità. E dunque ci vogliono due presenze per emulare l’eroismo solitario del protagonista di “Per chi suona la campana” Ma in definitiva anche quell’atto finale si consuma in uno scenario di umile paesaggio montano, con la solita attenzione a non prevaricarlo, a starsene acquattati all’ombra degli Appennini, senza più pretendere di compiere una marcia verso le Ande troppo lontane.
Eraldo Baldini, Stirpe selvaggia, Einaudi stile libero, pp. 296, euro 18.

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