Arte

Chagall: una mostra superflua

Una mostra di ben 265 opere di Marc Chagall al Forte di Bard, il luogo suggestivo posto all’ingresso della Val d’Aosta (correttamente recensita da Francesco Poli sulla “Stampa”) induce a due ordini di riflessioni. La prima riguarda il procedere disordinato della pletora dei nostri centri espositivi locali che insistono a pigiare sui medesimi tasti, replicando a oltranza la proposta di autori massimi o medi, non curando di cadere in repliche fastidiose e inutili. Argomento però da riservare ad altra occasione, relativa alla mala gestione del nostro sistema espositivo, su cui dovrebbe intervenire il ministero di competenza impostando un comitato di lavoro capace di procedere a concordanze ed economie di calendario. Ora però voglio insistere su un altro aspetto, cioè sul fatto che questa pletora di richiami in scena di sacri Maestri del primo Novecento è quasi inversamente proporzionale a un loro graduale decadimento e stanchezza, rivelatisi col passare degli anni. E Chagall è un esempio tipico di questo venire meno dell’indubbia originalità degli inizi, cui fa seguito una ripetizione stinta, accompagnata anche da una inflazione dei motivi, eccellenti in partenza, ma poi divenuti degli stereotipi, pronti ad assieparsi sulla tela, o più ancora sulle pagine di applicazioni grafiche, cui non è stato certo estraneo l’interesse commerciale di chi troppo presto ha accettato di fare un uso minore di se stesso. Accanto a Chagall, in una triste graduatoria del genere, metterei Mirò, e magari gli stessi pesi massimi Picasso e Matisse, il primo, magari, salvato da un suo compiacente estro per il mostruoso, per una eccezionale bravura accademica, l’altro sorretto da una grazia “giapponese” che però si fa via via più languida e rarefatta. Naturalmente un simile calo di qualità riguarda anche gli Italiani. Proibito, direi, replicare i Sironi e Severini, e magari anche Carrà e De Pisis, beninteso senza nulla togliere alla loro eccellenza quando compaiono “come si deve”, in retrospettive di ampio respiro e ben condotte. Ci sono però le eccezioni, tra cui, presso di noi, quella di Morandi, di cui non sono certo ammiratore incondizionato per una sua politica della parsimonia, simile alla condotta che teneva in vita, ma si deve pur riconoscere che ha cercato fino alla fine di svolgere un interessante gioco di varianti, senza mai cadere nell’ovvio e prevedibile. All’estero, un uguale riconoscimento di sperimentazione fino alla fine può essere accordato a Klee, e non invece a Kandinsky, suscettibile anche lui del rischio di essere sottoposto a stanche rievocazioni, su capitoli ormai conosciuti a memoria. In proposito posso difendere la mia stessa categoria di critici e storici del contemporaneo, che non si sono lasciati prendere da questo andazzo stanco e conformista. Abbiamo saputo accordare a Marcel Duchamp tutto il suo merito di strenuo ricercatore fino all’ultimo, e magari gli abbiamo contrapposto un De Chirico, strenuo anche lui ma in senso opposto, nel frequentare i bassifondi, cioè nel bere fino all’ultima feccia nel calice del “cattivo gusto”, fino a saltar fuori dall’altra parte e ritrovare il sereno. Invece il limite dei suoi compagni di strada è di aver mantenuto una coerenza, ma sempre più incerta e flebile, nelle loro pur valide mosse iniziali.
Tornando a Chagall, nei suoi periodi buoni, cioè nei primi tre decenni de secolo scorso, gli si deve riconoscere una magnifica capacità di fondere un mondo di leggende, tradizioni, miti ancestrali, legati all’universo dello chassidismo, cioè della mistica ebraica, fatto di catapecchie affondate in un eterno inverno russo, ma vivificate da fiammate fisiche e psichiche, da arcani fenomeni di levitazione, di misteriosi rabbini che si levano a volo, il tutto poi rivisto, a Parigi, innestando sulle mosse arcaicizzanti gli schemi duri, aguzzi di un cubismo pronto ad assecondare i voli dello spirito. Il tutto presentato in manifestazioni robuste, corpose, fortemente plastiche. Poi questa sostanziosa inflazione di materia, a consolidare le forme, a dare corpo alle immagini, a evitare che se ne stessero troppo volatili a fluttuare nello spazio, gradualmente è venuta meno, l’artista si è affidato a un esercizio manuale che ha scarnificato le apparizioni, riducendole a una popolazione di insetti svolazzanti, sciamanti nel vuoto, proprio come mosche imprigionate nel chiuso di una bottiglia, cui all’improvviso si concede di uscir fuori allo scoperto, pronte a picchiettare con macchie piacevolmente cromatiche il tratto di superficie da riempire, ignorando le sapienti pause, i vuoti strategici presenti nei capolavori giovanili.
Di fronte a questo calo incontenibile e irrimediabile dei Maestri, devo dire che trova tutta la sua importanza l’entrata in scena di figli o nipoti che magari hanno ripreso quegli impianti in partenza sicuri, ma dando loro nuova vita, nuova energia, e così sono saltati fuori tutti i tratti di un secondo Novecento, chiamati a un’impresa quantitativa, di allargamento, di ingrandimento, su cui non mi stanco di insistere. Mirò e Chagall sono rivissuti nell’Informale e nell’Espressionismo astratto, per non parlare di Duchamp e di De Chirico che sono stati riconosciuti alla testa di altrettanti percorsi ancora aperti, ma a patto di condurli allargandone le sponde. Forse il tutto rispecchia il mistero biologico, è quanto avviene in natura attraverso il meccanismo della riproduzione. I genitori, ben sapendo di invecchiare e di andare verso l’estinzione, devono riuscire a trasmettere i loro “geni” a una nuova ondata di figli, che risultino capaci di mostrarsene degni e di estenderne l’esercizio. Ma i tanti centri espositivi del nostro Paese dovrebbero capire anch’essi il compiersi di questo tramando, di questa staffetta, e dunque smetterla di insistere monotonamente a celebrare una popolazione di morituri, forse in qualche misura consapevoli che il loro tempo stava ormai cessando, e gli restava solo da raccogliere tardi oneri, e alte rimunerazioni di mercato a compenso delle pene sopportate in gioventù, quando erano davvero inventivi e sperimentali.
Marc Chagall, a cura di Gabriele Accornero, Forte di Bard, fino al 13 novembre.

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