Letteratura

Cibrario: un “Rumore del mondo” troppo attutito

Quando Benedetta Cibrario si è presentata, credo con la sua “opera prima”, “Rossovermiglio”, non le sono stato favorevole opponendole un “pollice verso” sull’”Immaginazione”, per la ragione che si trattava di opera anfibia, per un verso tuffata a recuperare passate stagioni prebelliche, poi a scandagliare fatti più vicini a noi, ma nell’un caso e nell’altro, senza grinta, senza capacità di mordere sull’attualità. Circa dieci anni dopo ritorna in scena con un romanzo più compatto, “Il rumore del mondo”, che almeno ha un vantaggio, rinuncia alla fastidiosa e poco remunerativa navigazione tra passato e presente, Questa volta la vicenda si pone a distanza storica, di quasi due secoli, ma sembra che la scrittrice assuma l’impegno di evitare tutto ciò che potrebbe fornire un climax, una temperatura drammatica alla sua narrazione. Si parte dall’Inghilterra dei primi decenni dell’Ottocento, che fra l’altro ospitava alcuni nostri esuli, dal Foscolo al Mazzini, ma la Nostra si guarda bene dal dare spazio a questi personaggi d’eccezione, perdendo un’occasione che invece ha dato lustro e spicco a un ben diverso romanzo, il “Troppo umana speranza” di Alessandro Mari, da me in più occasioni lodato, intanto per aver assunto un protagonista capace di fare la differenza, di non perdersi nel grigiore e nell’anonimato, come invece succede all’eroina di questo romanzo. Il piccolo, povero, quasi naif osservatore adottato dal Mari proprio per questa sua intrinseca pochezza riesce a divenire attento e acuto osservatore, quasi infilandosi nelle vesti dei grossi nomi che entrano nel suo territorio d’indagine, tra cui non solo i nostri residenti inglesi, ma perfino Garibaldi, e soprattutto Anita. Del resto, la partenza dall’Inghilterra è ben presto abbandonata dalla Cibrario, o diciamo pure che è una falsa partenza, come è falso, indiretto, marginale il motivo che consente alla protagonista, Anne Bacon, di lasciare la patria per trasferirsi nel territorio che la nostra autrice conosce davvero, il Piemonte, e per affrontare le vicende sabaude, fatte di regnanti, di aristocratici, di servi, di contadini eccetera. Non si capisce bene perché un bell’ufficiale dell’esercito piemontese risiedente per qualche tempo a Londra riesca a credersi innamorato di quella fanciulla, ricambiato da lei, in definitiva, di una medesima perplessità e mancanza di vero trasporto. Certo è che bisogna lasciare l’ingrata Albione per andare a cimentarsi appunto con una nostra realtà italica, ma per rendere il passaggio difficile e punitivo ci pensa un motivo di trama, la povera sposa nel trasferimento, appena attraversata la Manica e giunta in Francia, si becca il vaiolo, da cui guarisce, ma con le ben note tracce sulla pelle che la rendono decisamente un boccone ingrato al marito che la attende a Torino. Di fatto la Cibrario si muove continuamente tra la narrazione e la storia, quindi ci propina un perfetto trattato sul vaiolo e sui sistemi di vaccinazione che si stavano sperimentando e che rendevano meno dannosa quella piaga. Ma insomma Anne giunge nella capitale sabauda quando ormai non è tale da suscitare l’ardore di quel marito preso per sbaglio. Di nuovo la nostra romanziere dissipa al vento tutte le buone occasioni che una esistenza alla corte sabauda, in anni che si avvicinano alla prima guerra risorgimentale, avrebbe potuto rendere ghiotte ed efficaci. C’è un ritratto abbastanza preciso dell’”Italo Amleto”, di Carlo Alberto, ma figure per noi decisive come Vittorio Emanuele II e Cavour sono viste di straforo, per vaghi cenni. E dunque, ci annoiamo, così si può dire, assieme ad Anne, che non sa bene che cosa fare, praticamente abbandonata da un marito che da buon soldato è preso da amori fugaci, suscitati da bellezze più prosperose. Lei si potrebbe buttare per compenso tra le braccia di tale Enrico, un bravo borghese dedito alla coltivazione dei bachi da seta, ma per carità, nulla si deve decidere, tutto deve retare tra il detto e il non detto. In definitiva, a dominare la situazione c’è solo il suocero, personaggio, neanche dirlo, contradditorio, perché per un verso egli rappresenta la più decisa reazione nobiliare, il che lo rende sospettoso perfino verso il re e la sua pretesa di concedere ai sudditi uno Statuto. Ma per altro verso, e in definitiva anche per offrire alla nuora una qualche possibilità di vita, egli decide di tuffarsi nella coltura dei bachi da seta, associandosi al “borghese” Enrico. Nulla cambia quando l’autrice decide di disfarsi dell’inutile presenza di un marito perennemente evasivo, facendolo morire subito agli inizi dello scontro con gli Austriaci. Ma, come già detto, Anne non osa approfittarne, si limita a vivacchiare, con l’unica consolazione di tenere un carteggio con la sorella rimasta a Londra, ma anche su questo piano, se qualcuno ha in mente la tragedia della Clarissa di Richardson, se la scordi, tutto, in questo romanzo, affonda nel silenzio, nel non fatto. Ovvero, parafrasando il titolo, diciamo pure che “Il rumore del mondo” ci giunge attutito, quasi impercettibile.
Benedetta Cibrario, Il rumore del mondo, Mondadori, pp. 751, euro 22.

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