Letteratura

Come è bello andare in pellegrinaggio assieme a Brizzi

Enrico Brizzi è un narratore estremamente prolifico, riesce difficile fare il conto dei romanzi che ha prodotto, dal 1994 della sua “opera prima”, “Jack Frusciante è uscito dal coro”, fino a questo ultimo. “Il diavolo in Terrasanta”. Io in genere l’ho seguito dedicandogli commenti per lo più positivi, caso mai con note incerte e di non alto gradimento quando egli ha attinto a una piccola epica locale, di una Bologna che condivide con me e di cui conosce a fondo tutti i segreti e risvolti. Ad esempio, proprio all’uscita del “Jack Frusciante” con cui è iniziato il suo cursus honorum, mi capitò di dedicargli una recensione sul “Corriere della sera”, dove allora scrivevo, non proprio entusiastica, temendo di intravedere in lui i limiti della confessione adolescenziale di scarsa apertura, ma poi c’è stata la sua inclusione nella pattuglia reggiana dei “Narrative invaders”, anche se pure un secondo passo, “Bastogne”, non mi aveva convinto, intravedendo in quel truce racconto sia una eco di un film hollywoodiano di successo, sia una dipendenza dai conclamati “cannibali” proclamati dal duo Cesari-Repetti. E in fondo, anche quando di recente Brizzi è ritornato sui suoi passi, “Tu che sei di me la miglior parte”, ho riscontrato di nuovo il limite dell’orizzonte locale, di un palcoscenico felsineo, seppure ora indagato con piena maestria. Ma meglio quando la sua indubbia tenacia, capacità di analisi, di epica del quotidiano si allontana dal nucleo domestico e mette in cantiere vaste imprese. Il che avviene lungo due direttrici, che sono altrettanti generi letterati di cui Brizzi è il miglior cultore presso di noi. Il più ingegnoso sta in una sorta di romanzi di fantapolitica, dove il suo baldo protagonista si spinge nel futuro, o rifà i conti con la storia mutandone gli esiti dalla radice, per esempio supponendo che Mussolini (cosa che ovviamente non troveremo testimoniata nei due prossimi volumi che Scurati, coi piedi ben piantati per terra, dedicherà al Duce). Invece il Nostro immagina che Benito, con un’abile giravolta, si schieri con gli alleati, e dunque possa morire tranquillo nel suo letto, come era avvenuto a Franco, suo omologo spagnolo. E gli Alleati, per ricompensarlo del ribaltone, gli lasciano le colonie africane, mentre le loro forze di liberazione risalgono la Penisola d’amore e d’accordo coi repubblichini per cacciare via i soldati tedeschi. Questi romanzi costituiscono un capitolo ragguardevole, nella nostra storia letteraria recente, degno di studio, di tesi universitarie e così via. L’altro filone, se si vuole, è meno originale, consiste nel diario di memorabili pellegrinaggi a piedi o con altri mezzi di fortuna verso luoghi celebri, Roma come meta di un percorso francigeno che varca le Alpi, Santiago de Compostela che varca i Pirenei, e ora, e finalmente sono giunto sull’obiettivo, ecco il viaggio più avventuroso fra tutti che ha per metà Gerusalemme, con l’obbligo di varcare una bella fetta di mare Mediterraneo, mentre i precedenti pellegrinaggi avevano la fortuna di svolgersi solo per terra. Gli ingredienti sono più o meno sempre gli stessi, ma numerosi, ben assortiti, fino a costituire dei “polpettoni” gustosi. Non manca il legame con la realtà petroniana, in quanto il narratore recita allo scoperto, mantenendo pure un filo ombelicale con la famiglia che si è lasciato alle spalle, con cui comunica come si fa al giorno d’oggi ricorrendo al telefonino, dopo ogni giornata di cammino. E sempre da Bologna si porta dietro i co-protagonisti, un serioso e austero Cesare Maggi, non per nulla detto il Logista, o al contrario uno squinternato e balordo Max Montefiori, pieno di tic, di colpe, capace di ogni possibile passo falso. I nostri pellegrini si valgono di un linguaggio basso, lubrico, pieno di frizzi e lazzi, ma almeno il narratore in prima persona trova subito la parlata in buona lingua se deve dare al lettore dei chiarimenti turistici, o storici, o magari anche gastronomici. Le varie modalità dei pasti, come dei modi di dormire, animano queste pagine e ne costituiscono una ghiotta, è il caso di dirlo, attrattiva. Ma nello stesso tempo un intento didattico, preso molto sul serio, porta l’autore a dirci della storia della Grecia, del Dodecanneso, di Creta, di Cipro e così via. In qualche modo sullo sfondo ci potrebbe stare la bella favola del film di Gassman e di Volonté, che però, beati loro, superano il mare in un colpo solo, come in un cartone animato, qui invece la volgare, e spesso brutale prosa della realtà rende assai difficile il passaggio verso Israele, e beninteso anche là non mancano insidie, agguati, rischi, pericoli, davvero non ci si annoia a leggere queste pagine, il lettore si sente chiamato a entrare negli stessi panni dei pellegrini di nuovo conio, a condividerne le difficoltà, ma unite al gusto dell’avventura, al piacere di apprendere fatti nuovi, dati sconosciuti.
Enrico Brizzi. Il diavolo in Terrasanta, Mondadori, pp. 510, euro 20.

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