Attualità

Dom. 11-11-18 (Cazzullo)

Stimo abbastanza Aldo Cazzullo, come del resto gli altri opinionisti in forza del “Corriere della sera”, per esempio Paolo Mieli, Beppe Severgnini, mentre più difficile è il mio rapporto con i collaboratori esterni, detesto i predicozzi di Galli Della Loggia, dissento in pieno dal liberalismo di Francesco Giavazzi, ho umori a sensi alterni con Angelo Panebianco, Ma tornando a Cazzullo, non ho condiviso una sua polemica con un lettore, nella rubrica “risponde” di martedì 6 novembre, a proposito di D’Annunzio e dei suoi rapporti con la Grande Guerra. Del resto, molto sinceramente Cazzullo ha dichiarato che nei suoi giudizi sul Vate è condizionato da un’insegnante avuta al liceo che glielo ha presentato in termini molto negativi, sul piano ideologico. Il che lo ha portato a bacchettare il Comandante imputandogli di essere stato un interventista, un guerrafondaio, un cinico condottiero portato a spingere alla morte centinaia di poveri soldati. Il tema è grosso e forse senza soluzione. Nel 1915 era meglio intervenire o no? Sbattere sul tavolo della pace la immane cifra di un milione di caduti, per meritarci la consegna di Trento e Trieste, o invece astenerci dal conflitto e ricevere quelle stese terre dall’impero austroungarico come premio per la nostra neutralità? Francamente non so cosa avrei pensato in quel momento drammatico, forse davvero era meglio astenerci dall’entrata in guerra. Ma, tornando al Comandante, è sicuramente vero che egli ha voluto la guerra per spirito guerrafondaio, per esaltare il suo eroismo, da autentico cavaliere all’antica o da samurai, dedito alla singolar tenzone, di cui infatti ha dato prove tangibili, imbarcandosi per temerarie imprese su agili imbarcazioni o su fragili velivoli, fino al famoso infortunio che gli è costato la perdita di un occhio, Ma è altrettanto sicuro che proprio nel corso della Guerra è avvenuta una mutazione in lui, egli ha capito la presenza dell’”umile fante”, del popolo affamato, negletto, sfruttato dalla borghesia, che peraltro era la sua stessa classe d’origine. Ci sono dichiarazioni sincere in lui quando dice di inchinarsi proprio davanti all’”umile fante” e di sentire l’obbligo morale di innalzare un altare in suo onore. Una cosa si può dire, che sul fronte il proletariato italiano, oltre a fare qualche passo verso un’unificazione linguistica della comunità nazionale, ha raggiunto un’unità di classe. E’ quanto un allora giovane scrittore in erba, Curzio Malaparte, ha capito a meraviglia, dandoci quello straordinario pamphlet che si intitola “Viva Caporetto” dove viene svolta una tesi estrema ma in sostanza veridica, che proprio in occasione di quella disfatta i poveri fanti hanno capito che il vero nemico era nelle retrovie e dunque bisognava invadere l’Italia per colpire il vile borghese che li aveva mandati mal attrezzati a morire sulle trincee. Credo che, anche senza gli orrori della guerra, in quel momento storico ci sarebbe stato comunque lo scontro tra un proletariato oppresso, sfruttato in mille modi, e la borghesia, ovvero l’Italia si sarebbe trovata al discrimine, o una rivoluzione di sinistra, al modo di quella leninista, sovietica, o una controrivoluzione di destra, dei neri, del fascismo. Certo, continuando a compulsare il dossier dannunziano, senza dubbio egli allora stava coi neri, però ci fu quell’episodio di Fiume e della Carta del Quarnaro che senza dubbio si pose nel segno dell’ambiguità, ma che allora era nell’aria, in sospensione tra sinistra e destra, tanto che perfino Lenin mandò un osservatore per capire che cosa stava succedendo a Fiume, verso cui molti intellettuali accorrevano da tutte le parti, non solo della geografia dell’Occidente, ma anche della carta dei valori ideologici. Fu insomma la “Festa della rivoluzione”, come una eccellente studiosa di quei fenomeni, Claudia Salaris, ha intitolato un suo saggio fondamentale. E io stesso, riproponendo un mio scritto, “D’Annunzio in prosa”, l’ho potuto arricchire della preziosa testimonianza di alcuni intellettuali inglesi, i fratelli Sitwell, che si dissero all’incirca: “abbiamo perso la rivoluzione sovietica di ottobre, non lasciamoci scappare questa nuova occasione data da Fiume”. La conclusione è che bisogna stare attenti a non applicare chiavi ideologiche troppo a senso unico, occhiali affumicati dal pregiudizio, Purtroppo l’Italia del secondo dopoguerra, in giusta reazione al fascismo, fu dominata da una ortodossia marxista ottusa, pronta a fare strazio di tanti valori, senza accorgersi che aveva nell’armadio gli scheletri della repressione stalinista. Sia D’Annunzio che Pascoli furono tra le molte vittime di letture del tutto monodirezionali.

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