Attualità

Dom. 26-2-17 (Livorno)

A livello tattico, o comunque di lettura immediata, i recenti avvenimenti in casa Pd portano a dare un giudizio negativo sulla condotta di Renzi. Che cosa lo ha spinto a dare così presto le dimissioni da segretario del partito, e dunque ad avviare il procedimento congressuale? Aveva una solida maggioranza sia in Assemblea sia in Direzione, il che gli avrebbe permesso di attendere la scadenza naturale del suo mandato, nel prossimo autunno, e di tacitare le proteste dei suoi oppositori interni, le cui motivazioni (peraltro del tutto pretestuose, come dirò subito dopo) sono state che così si toglieva loro la possibilità di organizzare un dissenso in regola e di lanciare candidature alternative coi tempi necessari. La fretta dimostrata da Renzi si spiega solo con due motivi, la speranza, al momento non del tutto vanificata, di andare, subito dopo una sua rapida conferma nel ruolo di segretario, alle elezioni politiche. O in alternativa il timore che le elezioni amministrative potessero avere un esito negativo, così da indebolire una sua candidatura se avanzata a posteriori. Ma la prima ipotesi, per fortuna, appare ormai del tutto caduta, quanto alla seconda, non sembra essere nella natura dinamica di Renzi il farsi condizionare da timori di insuccessi elettorali. Però, se su un piano di decisioni spicciole del giorno per giorno hanno ragione tutti quelli che hanno accusato l’ex-segretario di durezza di condotta, di disprezzo per gli avversari, perfino di cinismo, la cosa cambia passando a una dimensione di più largo respiro, nel quale caso si potrebbe anche giustificare l’operato renziano. Inutile temporeggiare, cincischiare, rimandare. Non abbiamo assistito soltanto a una misera querelle di umori, di personalismi, di indebite reazioni psichiche, è necessario condurre una diagnosi ben più profonda. Purtroppo è ricomparso in scena il dramma di Livorno, ovvero della spaccatura tra un’anima socialdemcratica della sinistra e un’altra invece massimalista, più vicina alle tesi marxiane e, allora, succube del modello forte, prima leninista, poi stalinista. Io, al momento di prendere a collaborare con l’”Unità”, agli inizi del 2000, avevo auspicato che lo spettro di una nuova Livorno fosse ormai fugato per sempre. Purtroppo non è stato così, esso si è ripresentato, anche se, per fortuna, in termini rovesciati. Allora era l’anima socialdemocratica ad apparire destinata alla sconfitta. Erano tempi duri, bisognava barricarsi per resistere all’avvento dei nazionalfascismi, e anche nel dopoguerra, con il costituirsi dei due blocchi opposti, occorreva “militare”, schierarsi. Ma oggi, per fortuna, non è più così, sono gli stanchi e sparuti eredi dei vari post, comunismo, marxismo, ad apparire sconfitti, confusi, in rotta. E questo non solo o non inprimis in Italia, ma in tutto il mondo occidentale. I D’Alema e i Bersani che se ne sono andati, inutile che agitino la tesi di una mutazione genetica della sinistra. Se avessero avuto davvero fiducia negli strati residui di consistente sinistrismo, di quello “duro e puro”, alleato ai rigori della CGIL, avrebbero accettato la sfida delle primarie contro lo spirito moderato del renzismo. Se ci sono davvero queste masse infelici perché vittime dell’infame trama dei “socialtraditori”, perché non chiamarle a raccolta e portarle alla riconquista delle vecchie trincee? IL fatto è che gli eredi di questo sinistrismo d’antan sanno che la loro causa è perduta, e piuttosto che consegnarsi all’avversario, preferiscono andare a barricarsi in un ultimo ridotto, che darà loro la garanzia di resistere per anni in una riserva indiana. Peccato che quelle decine di deputati e di senatori sottratte alle forze comuni peseranno fortemente sulle sorti future del fronte socialdemocratico, lo obbligheranno a convivenze forzate, a coalizioni piccole o grandi. Le Livorno di ieri e di oggi, forse inevitabili, non per questo sono indolori.

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