Letteratura

Genovesi, un abile gioco tra il micro e il macro

Ho lodato molto, l’anno scorso, il primo romanzo di Fabio Genovesi, “Cadrò, sognando di volare”, dedicandogli un convinto pollice recto sull’Immaginazione. Ora segue a ruota “Il calamaro gigante”, dove è chiaro che, sfruttando il successo riportato, l’autore ha voluto crescere, migliorare la precedente prestazione, e per un verso è senza dubbio così, ma si sa pure che una simile volontà di crescere è suscettibile di cadere in qualche eccesso. Direi che la partenza giusta del nostro Autore sta sempre nel farsi sostenitore della causa di chi, fin dalla nascita, è “un bambino strano”, fuori dalle rotaie della normalità, del prevedibile, dello stereotipato. In questo romanzo il caso migliore di straniamento è forse quello della ragazzina che, resa edotta dell’esistenza di milioni di microrganismi nel suo corpo, ne resta atterrita, fino da farsene vittima, cedendo a quell’invasione sconvolgente. Ma Genovesi, a questa soluzione del “micro”, nella presente occasione preferisce giocare la carta del “macro”, ed ecco dunque proprio il calamaro gigante, del resto non privo di titoli di merito, dato che da lì, finché scrivevamo a penna, prendevano il nero inchiostro di cui quell’animale è il normale serbatoio, e anche il calamo in parte viene fuori da lì. Ma l’autore preferisce dare a una simile occasione naturale una spennellata con la vernice del dottor Lambicchi e far risultare appunto l’idea mostruosa di un calamaro, o meglio di un polipo con tentacoli giganteschi, lunghi decine di metri, con relative leggende di marinai che giurano di aver pescato dei mozziconi smisurati di queste sorte di pompe degli abissi. Così ci si collega a tutta una serie di motivi degni del realismo magico o surreale, da Melville in su, rivisitati mantenendo un opportuno spirito di distanza, di chi sa bene che sta spacciando una merce rara e pericolosa. Del resto, non viene meno la risorsa degli “strani”, come per esempio quella povera e indifesa fanciulla inglese che scopre addirittura gli scheletri dei dinosauri come fossili, emergenti dalle rocce. E così via, Genovesi stende una specie di albo d’onore di quanti sono stati artefici di scoperte nel mondo del meraviglioso, dell’arcano, mettendo a dura prova i criteri della scienza e del verosimile. Per fortuna che non smarrisce mai il ritorno su questa terra, e dunque, a tante meraviglie gonfiate all’eccesso, fanno sempre riscontro dei felici rimbalzi su questa terra, a persone semplici come noi, immerse nella quotidianità. A un certo punto, però, L’autore si fa prendere la mano da questo stesso bisogno di fare grande. Quando teme di aver esaurito tutto il possibile da ricavare da calamari giganti e loro simili, inserisce un polipaio, un mostro dei nostri giorni, ovvero l’isola immane costituita dai depositi dei prodotti sintetici creati dalla nostra industria. Il che però lo spinge a fare un po’ di morale, in seno a un racconto che invece dovrebbe mantenersi nel dualismo, nel gioco di sponda tra le invenzioni fantastiche e i provvidenziali richiami alla nostra realtà più prosaica.
Fabio Genovesi. Il calamaro gigante, Feltrinelli, pp. 141, euro 14.

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