Letteratura

Giorgino. un ritorno al tema letteratura e industria

Sono molto grato a Simone Giorgino che per ben tre volte, in anni successivi, si è prestato a presentare, alla Feltrinelli di Lecce, tre dei miei saggi usciti come in un “serial” presso Mursia, dedicati a vari aspetti della narrativa internazionale tra il moderno e il contemporaneo. Non è per un rito di scambio che ora mi impegno a mia volta sul suo saggio recente, “Poeti in rivolta”, dedicandogli uno scritto di cui certo non ha ragione di rallegrarsi, dato che esce in questa mia rubrica solitaria, in definitiva è come se gli inviassi una lettera del tutto privata e personale di commento a quanto da lui affrontato in pubblico, toccando un tema illustre, quale il rapporto tra la ricerca letteraria e i fattori “pesanti” della cultura materiale, il lavoro, l’industria. E’ stato un tema che ha assillato particolarmente la nostra critica proprio al tornante decisivo tra anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Italia conobbe il grande mutamento, da una immersione nella civiltà contadina a un ingresso, con tutti i relativi disagi e problemi, nell’età industriale avanzata. Il quadro socio-economico che Giorgino traccia come sfondo della sua ricerca è corretto e puntuale, e così pure sono opportunamente scelti i protagonisti e testimoni di quella svolta epocale. Del resto, così facendo, il nostro critico ha aggiornato, rivisitato un dibattito illustre che allora si tenne sulla rivista letteraria più titolata dei quel momento, il “Menabò”, sotto l’autorevole guida di Elio Vittorini e di Italo Calvino, con un numero, nel 1961, dedicato per intero proprio a questo argomento, e uno successivo in cui veniva presa in esame la reazione che ai nuovi orizzonti sociali stava fornendo proprio il fenomeno di cui io stesso ero protagonista, la neoavanguardia del Gruppo 63. A questo proposito non posso che confermare la mia adesione a un saggio fondamentale affidato da Umberto Eco alla seconda di quelle puntate, e provvisto di un titolo che ne è già anche il riassunto nel modo più chiaro: “Del modo di formare come impegno sulla realtà”. Era un Eco allora in gran forma, da vero e proprio nostro fratello maggiore, come allora eravamo tutti pronti a riconoscergli. Ma poi sono venuti da parte sua le delusioni, i tradimenti, i giri di walzer che io personalmente non gli ho perdonato. Lui, paladino del concetto di “opera aperta”, di lì a poco si sarebbe tuffato nell’impresa asfissiante, chiusa al massimo, della semiotica. E da ottimo esegeta dell’opera più avanzata dello sperimentalismo del primo Novecento, il “Finnegans Wake” di Joyce, si sarebbe dato a stendere quei romanzacci di intreccio, di avventure che tentavano di rubare il mestiere a Dan Brown, senza peraltro riuscirvi. Invece, in quel saggio magistrale, egli imboccava la via giusta di affrontare il problema, che non sta, per valerci di una felice similitudine fornita proprio da Vittorini, nel “suonare il piffero alla rivoluzione”, ovvero i poeti e narratori non devono impadronirsi dei nuovi temi, propositi, lieviti di rivolta eccetera, condendoli in bella forma, rendendoli appetitosi. La via maestra, anche se non mi pare che Eco ne fosse del tutto consapevole, stava nel seguire la via imboccata dal sociologo francese Lucien Goldman: la letteratura, o in genere l’attività artistica di ricerca, non deve essere succube dei contenuti, ma impostare degli schemi d’azione innovativi, in profonda corrispondenza (omologia) con le nuove strutture e tendenze che la realtà stessa, nella sua materialità sta seguendo. Il nostro obiettivo polemico, in quella stagione, era Pier Paolo Pasolini, perfetto nell’enunciare nella sua poesia tutti i temi sociali del giorno, ma col limite di “dirli” in forma “chiusa”, con lessico e metrica di impeccabile impronta classica. Mentre al contrario occorreva che la poesia acquisisse lo stesso ritmo sussultante, dinamico, di coinvolgimento immediato di cui si dotavano nello stesso momento anche i meccanismi produttivi. Insomma, la stessa azione doveva battere all’unisono nella prassi materiale e nella contemporanea produzione artistico-poetica, senza intercapedine, senza la fatale distanza e separazione che potrebbero dividere la cosa e la sua immagine riportata. Ecco perché la poesia “novissima” era fondamentalmente asintattica, praticava un collage immediato di oggetti linguistici brutalmente accostati, senza margini, in luogo delle ben lubrificata sintassi, con tutte le congiunzioni e preposizioni al posto giusto, di cui Pasolini non sapeva né voleva privarsi. Tra le poesie indagate da Giorgino ci sono pure quelle di Pagliarani, e beninteso anche nel suo caso vale la “presa diretta”, nel narrare le tristi vicende della “Ragazza Carla” egli passa al riporto “tale e quale” di frasi fatte, simili a stereotipi, proprio come in un collage, o meglio in un décollage, come quelli che stava fabbricando in ambito visivo Mimmo Rotella. Anche se, lo ammetto, il riporto del “tale e quale” nel caso di Pagliarani era pure accompagnato da un po’ di solvente, il che gli permetteva di essere l’eternamente salvato tra i “Novissimi”, da tutti i nostalgici delle buone maniere, mentre i “cattivi”, i reprobi, erano Sanguineti e Balestrini, proprio per l’assoluta mancanza di interstizi nel loro muro oggettuale. Infine vorrei menzionare un caso che però non entra tra gli esempi di Giorgino, quello fornito da Paolo Volponi, non tanto come poeta quanto come narratore. Poteva sembrare un caso tipico, una dimostrazione probante del disagio che il lavoro industriale causa alla nostra psicologia, se pensiamo all’alienazione di cui dà prova Albino Saluggia, stendendo il suo “Memoriale”, che pare proprio essere il puntuale referto dei guai che il lavoro in fabbrica provoca su un uomo qualunque. Sennonché Volponi ha proceduto a rifiutare poco dopo questo solido ancoraggio contenutistico, scegliendo un protagonista lontano dal mondo della fabbrica, anzi, tuffato in un pigro sfondo agricolo, come quello delle colline marchigiane, assunto come terreno d’elezione della “Macchina mondiale”. Non c’è più il pretesto del male prodotto da iniqui sistemi sociali, l’essere umano è solo con se stesso, a indagare sulla propria ansia esistenziale. E’ un rifugio nell’individualismo, nell’eccezione? No, perché quel personaggio davvero “in rivolta”, senza evidenti provocazioni esterne, corrisponde alla nostra umanità che corre in avanti, magari verso le prospettive di liberazione, di vita sottratta alle cure, a realizzare il villaggio globale, il “tutti in rete”, che verranno buoni con la svolta del ’68. Ma mi rendo conto che sto prevaricando sulle intenzioni di questo saggio, però è anche l’invito al nostro Giorgino perché voglia mettere in cantiere al più presto un seguito, intitolato non più all’industria, ma alla post-industria, alle modalità di vivere e di fare arte dei nostri giorni.
Simone Giorgino, Poeti in rivolta. Lavoro e industria nella poesia italiana contemporanea, Edizioni Sinestesie, pp. 174, euro 15.

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