Arte

Gnoli, una viglia già significativa

Sono stato un pronto estimatore di Domenico Gnoli (1933-1970) quando, nel 1967, ebbi l’occasione di presentarlo alla bolognese De’ Foscherari, nel suo volto classico ormai raggiunto. Il solo altro criticio che in quel momento si curava di lui era Luigi Carluccio. In seguito, convinto della sua importanza, convinsi l’amico Marcello Rumma, collezionista, intrepido organizzatore di mostre, infine editore in quel di Salerno, ad acquistarne un dipinto, con disappunto dei suoi conterranei, Filiberto Menna, ma ormai emigrato a Rona, e l’emergente Achille Bonito Oliva, che si affrettarono a consigliarlo di disfarsi di un’opera così in disaccordo con i requisiti ufficiali della allora dominante Pop Art di rito statunitense, pedissequamente seguita nell’ambiente romano. Io invece sono sempre stato portato ad allargare il quadro degli “ismi”, nel nome di uno Zeitgeist che ignora muretti e sponde. Del resto Rumma mi aveva dato credito consentendomi di organizzare nel ’67, ad Amalfi, sede allora a sua disposizione, un molto inclusivo “Ritorno alle cose stesse”, tentativo di raccogliere le varie pratoche oggettuali seguite in quegli anni nel nostro Paese. Poi lo sguardo di tutti si era allargato, e Gnoli era stato ammesso, anche dagli amici romani, in un canone ufficiale, al punto da indurre una coraggiosa curatrice come Maria Corral, insediata nella barcellonese Caja de Pensiones, a dedicargli un’ampia mostra, sul finire degli Ottanta, chiedendo a me di stendere il relativo testo introduttivo. Dovrei andare a vedere se già in quel caso accennavo ai suoi “Disegni per il teatro”, stesi tra il 1951 e il ‘55, cui ora è dedicata una mostra molto utile a Spoleto. Infafti è sempre stata mia opinione che gli artisti autentici si rivelano fin dai primi passi, e anche attraverso errori o falsi scopi che magari al momento gli capita di coltivare. Infatti il sottile e abile disegnatore, quale Gnoli era già nei suoi vent’anni, non va sicuramente ammirato quando si fissa su personaggi a tutto tondo, presentati in costumi vezzosi da operetta, con copricapi monumentali, barocchi, arzigogolati in eccesso, in ottemperanza a un mondo fatuo e del tutto di stampo occasionale, che però potrebbe avere avuto in Gnoli un utile effetto apotropaico, inducendolo a giurare a se stesso che di corpi e teste così totalmente al servizio dell’occasionale e della moda non ne avrebbe più fatti. Forse da qui la decisione di decapitare quelle figure tronfie e pompose, proprie per liberarsi dagli orpelli che si trascinavano dietro e che gli imponevano di rispettare. Libero da tutto quell’apparato degno di un trovarobe teatrale, divenne finalmente libero di concentrarsi non su un “totale”, ma su dettagli resi significativi attraverso un avvicinamento lenticolare, e sorpresi secondo un costume finalmente attuale, o diciamo pure di specie “popular”, di pettinature, scriminature appena uscite dal parricchiere, o di imoeccabili colletti duri con tanto di cravatta. Magari se il prelievo dei singoli dettagli era già parzializzante e ingrandente, la fattura, secondo i canoni ufficiali della Pop di rito statunitense-romano, appariva troppo grassa, corpacciuta, nel che tuttavia stava uno dei tratti più interessanti dell’arte di Gnoli, che infatti lanciava un ponte all’indietro, a ricongiungersi alla stagione dei Valori Plastici, o al Surrealismo di Magritte. Del resto già qui, in questa produzione per il teatro, con connessa esigenza di dare fiato a un protagonismo, anzi, a un gigionismo attoriale, il sottile disegnatore tenta di concentrarsi sui margini, di andare a tratteggiare i rigati orizzontali di calzettoni, o le strisce verticali di camiciole, gonne e altro. Agisce insomma in lui una irresistibile attrazione verso tutte le possibilità di tradire un insieme troppo convenzionale per andare a portare l’attenzione ai lati, ai residui, al “fuori campo”. Un altro aspetto assolutamente anticipatore è dato anche dalle scansie che spesso si aprono alle spalle di coloro che recitano in modi gonfi e reboanti in primo piano. E’ una geometria di orizzontali-verticali fatta apposta per sostenere una selva di oggetti che se ne stanno tranquilli e immoti, ma in evidente attesa che venga il momento di essere chiamati in scena: quando, presto, scoccherà l’ora di rimandare tra le quinte i personaggi fatui e pomposi, e di fissare da vicino quella famiglia di oggetti inanimati, secondo la fame di oggettualità che percorse buona parte degli anni Sessanta, fino alla svolta del ’68, e che si incarnò in varie possibilità e alternative, con buona pace dei colleghi romani fissati a ritenere valide solo le soluzioni di specie Pop.
Domenico Gnoli, Disegni per il teatro 1951-55, a cura di Bruno Toscano e Michele Drascek, Spoleto, Palazzo Comunale, fino al 1° ottobre. Cat. Editoriale Umbra.

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