La veneziana Ca’ Pesaro dedica un’ampia retrospettiva ad Arshile Gorky (1904-1948), uno dei massimi esponenti della Scuola di new York, direi dell’importanza di un Pollock e di un De Kooning, forse ancor più coerente e lineare di loro. Come il secondo, era anche lui un profugo dal Vecchio Continente, ma giunto negli Usa molto dopo, e ancora in giovane età, 1920, per sfuggire alla persecuzione che i Turchi infliggevano agli Armeni, mentre ora tentano invano di rifugiarsi nel “negazionismo”. Quella persecuzione aveva indotto il padre a riparare per primo oltre Oceano abbandonando moglie e figlio, e forse proprio da qui parte la carriera ufficiale del pittore, in un dipinto dove lo si vede accanto all’amatissima madre, avvolta in un soffice cappuccio, di cui ignoro il nome tecnico, che però è chiamato a costituire un stilema fondamentale per il giovane artista, quasi il simbolo e la molla decisiva che ne ispira il senso di morbidezza, di sofficità da cui sarà accompagnato per tutta la breve esistenza e carriera. Al dato stilistico vorrei aggiungere anche un commosso commento psicologico, quel tenero quadretto di madre e figlio mi ricorda un episodio del tutto recente e di diversa natura, qualcosa di simile che entra nell’ultimo film di Almodovar, cui, la settimana scorsa, ho dedicato in questo blog un convinto omaggio. In quella coppia rivedo quanto compare anche nel film del regista spagnolo, che segna i suoi momenti migliori allorché compare un ragazzino, sua proiezione a ritroso nel tempo, accanto alla madre, magnificamente impersonata da Penelope Cruz, mentre la colonna sonora diffonde la magica canzone di Donaggio, “lassù sento gli angeli che cantano /dolcemente, dolcemente”. Ebbene, il medesimo motivetto risuona dentro di me quando contemplo quella visione di tenerezza familiare. Da lì parte una tendenza a gonfiare, a insufflare energie, che accompagna Gorky in tutta la sua attività, magari trasferendosi dal copricapo della genitrice alle sue braccia, che si fanno turgide, come di un pugile pronto a salire sul ring, o di un giardiniere che indossa dei guanti di plastica per proteggersi dalle spine della vita. Direi che lo stesso senso di un languore rotondeggiante si incista anche negli occhi dei personaggi, polle profonde, scaturigini oscure di una sorgente quanto mai prolifica. Questo è uno dei pochi punti che Gorky trae dall’insegnamento di Picasso, artista ben più mobile e irrequieto e incoerente, in cui però quasi sempre ci sono due pupille oscure, marcate come dei chiodi, dei punti fermi in un mare di mobilità. Come tutti i maestri del secondo Novecento, anche Gorky saccheggia i maestri del primo Novecento come e quando può, ma sempre traferendoli in quel suo universo morbido, intollerante dell’angolo retto, delle linee spezzate, tanto che il geometrismo e il suo fascino non avranno mai udienza, alla sua corte. A meno che non ci si riferisca al famoso “acquerello astratto” steso da Kandinsky nel 1910, dove però il termine di astrazione è improprio, o almeno non viene a turbarlo alcun inserimento di schemi angolosi e spezzati. Questi verranno, ma solo alla fine del secondo decennio, quando Kandinsky riparerà alla corte frastornante del Bauhaus di Gropius e si porrà sotto la sua ferula impietosa. Meglio dichiarare che l’artista russo è il padre dell’Informale, o se proprio si vuole insistere a usare l’etichetta dell’astratto, meglio accompagnarla subito, come infatti avvenne per la Scuola di New York, con l’epiteto di Espressionismo. Di questa accoppiata, in definitiva, il nostro artista armeno già si valeva quando tracciava i corpi consistenti della madre e di se stesso, e forse avrebbe potuto continuare su questa via se avesse ascoltato fino in fondo l’insegnamento che a New York ricevette da Sebastian Matta, transfuga dal suo Cile, anche lui pronto a dargli una lezione di andamenti curvilinei. Ma Matta era uso inserire nelle sue tele una folla di mostriciattoli figurativi, iconici, come dei robot sospesi tra richiami folclorici, atavici, e invece incursioni fantascientifiche. Gorky non si lasciò affatto sedurre da quelle folle golose e aneddotiche, procedette con divina calma e maestria a cavar fuori dal pozzo profondo delle occhiaie, o dalle ampie falcate dei copricapi materni, un’intera produzione floreale, soprattutto di orchidee incantate, che erano quasi le metamorfosi in senso biomorfo di quegli indumento, e nello stesso tempo apparivano colme di richiami sessuali, per quei petali e calici e corolle spalancati con tenera, innocente impudicizia, offerti alla visita da un nugolo di insetti impollinatori, incaricati del compito di trasmettere le spore, di far nascere ovunque un tripudio di nuove efflorescenze. E l’artista sapeva adottare con la sua tavolozza le gamme cromatiche meglio adatte a quella festa organicista, con magica sospensione tra i riferimenti da erborista abbastanza puntuale e le libere divagazioni di un astrattista, ma sempre tallonato da un senso di vitalismo incalzante. Le manifestazioni floreali, esplodono, si moltiplicano, ma pur sempre leggere, e sostenute da una mirabile efficacia coloristica, tra accensioni carnose o invece improvvisi passi indietro, casti e contenuti. Incontrando queste mirabili effusioni cromatiche ai miei inizi di carriera, e volendone indicare l’alta qualità, mi capitò di ricorrere a una metafora che credo appropriata, dichiarando che una pittura del genere sarebbe piaciuta anche al nostro Giorgio Morandi, al di là delle differenze di età, percorso, collocazione.
Arshyle Gorki, Venezia, Ca’ Pesaro, a cura di G. Belli e E,Devaney, fino al 27 agosto.