Arte

I mille stili di Armando Testa

Il MART di Rovereto presenta una più che opportuna retrospettiva dedicata al nostro maggiore grafico pubblicitario del secondo Novecento, Armando Testa (1917-1992). Il riportarlo a un genere specifico non deve sembrare riduttivo, dato che fin dai tempi di Toulouse Lautrec il cartellonismo per ditte e prodotti ha marciato al passo con i migliori contributi delle avanguardie, offrendo anche la possibilità di smarcarsi dall’obbligo della coerenza stilistica, capace di gravare molto di più sui candidati a un titolo di artista “puro”. Per questo verso funziona molto bene il titolo dato alla mostra, “Tutti gli ismi di Armando Testa”. Sta nelle migliori prerogative del grafico pubblicitario cogliere a volo i suggerimenti impliciti nei nomi stessi della merce o dell’evento da reclamizzare, in un gioco combinato tra sollecitazioni verbali e immagini che ne derivano, per cui tutta questa attività si pone nel segno dell’”ingegno” di marca barocca, o diciamo pure la parola, di un “concettismo” che naturalmente ci rimanda subito all’”arte concettuale”, collocando i coltivatori di queste forme d’arte nella schiera dello sperimentalismo più avanzato. Conviene forse partire da una proposta dell’80, molto semplice e sintetica, come del resto è sempre stato proprio del lungo esercizio di Testa. Vi si vede un suo ritratto fotografico, con una matita, ferro del mestiere, brandita a mo’ di pizzetto, da un ardito cavaliere di ventura, o di scimitarra pronta a entrare in azione e menare fendenti nell’aria. Retrocedendo alle prime prove, per esempio per la ditta ICI, 1937, Testa vi si allinea a un geometrismo razionale, sulle orme di Nizzoli, ma poi non lo farà più, per darsi a un eclettismo libero e mobile. Il manifesto per il Riccadonna, del ’48, gli suggerisce l’idea di un nobile compiaciuto che si presenta in frac, ma avvolto in una rete che lo vivacizza. Il Carpano, che si vantava di essere il re degli aperitivi, lo porta a frequentare immagini colte, di monarchi da favola, che per l’occasione negano la lontana partenza geometrica assumendo invece posticci e decorazioni come per una recita da operetta. Un altro aperitivo, il Punt e Mes, con quell’accenno a una unità che si divide in due, gli è fertile di idee, convincendolo anche a ritornare a un gioco di plastica gonfia ed essenziale, stabilendo un arguto alternarsi di forme piene con altre dimezzate. Una delle carte che Testa ha saputo mettere in tavola con arguzia geniale è stato il diverbio tra iconismo e no. Come si sa, egli non ha esitato a fare ricorso a figure ben riconoscibili, come del resto gli era imposto proprio dalla professione assunta, ma le figure si facevano perdonare la loro facile leggibilità assumendo lo stato di quei balocchi del tutto soffici che piacciono tanto ai bambini, a gara con la popolazione delle Barbies e simili. Così è stato per la scenetta ispirata a uno smaccato gusto sudamericano della Carmencita e del Caballero che tiene il baffo di conquista (esattamente come avrebbe fatto qualche anno dopo lo stesso autore, ma, per così dire, dal vero). Su questa strada incontriamo il trionfale Pippo, del ’66, l’ippopotamo, ma reso del tutto cordiale, amichevole, da accarezzare con affetto, che avanza trotterellando, ballonzolando, compiaciuto di sé, e nello stesso tempo quasi timido, consapevole di doversi insinuare con grazia e non certo col linguaggio della violenza. Dunque, nel codice di Testa ci sta il rilievo plastico, emergente addirittura dalla superficie per acquistare una giusta rotondità, e deambulazione, e invasione della scena. Ma poi il nostro grafico è pronto a ricordarsi di quali siano le virtù intrinseche alla sua arte, cioè del dover procedere nel piano, con forme schiacciate, oggi si direbbe rivolte a rispettare una necessaria “flatness”. In questo caso però quanto si perde in effetti reali concreti, tridimensionali, deve trovare un compenso proprio nel frastagliare le sagome, nel farne delle ombre cinesi, quasi degli indovinelli visivi, da riconoscere con qualche difficoltà e sorpresa. Così è nell’Elefante con mela, del ’71, in cui la massa dell’animale si apre, si sfalda, si dirama, per darci un equivalente della proboscide elastica, flessibile, al cui termine, quasi per effetto di prestidigitazione, compare una mela, evocata dalle viscere, come apparizione magica e impensata. Allo stesso mode un Cavallo che ride cinese, ’82, viene ottenuto semplicemente strappando in modo approssimativo dei fogli di carta, ricavandone delle sagome alla buona, che però non impediscono di leggere alla fine l’icona desiderata, pur con mezzi volutamente “poveri”. Qualche volta, agendo sempre a livello di “flatness”, Testa incalza da vicino qualche maestro che lo ha preceduto sulla stessa strada, osa perfino misurarsi con uno dei frutti più squisiti e oltranzisti in questo senso quale la “Danza” di Matisse, basterà prolungare un poco le braccia, le gambe del balletto sciolto, portarle a stringersi tra loro, a chiudere il groviglio in un nodo stretto. Ma non sia mai detto che il Nostro operi una scelta univoca verso un fare “piatto”, astratto. L’occasione, il dio da rispettare, talvolta preme in direzione opposta, verso un realismo crudo, però pur sempre accompagnato da validi indici di straniamento. Si deve fare pubblicità al breakfast mattutino, una delle cui portate classiche può essere l’uovo al tegamino? Basterà fare di questo cibo elementare una sorta di isola, di atollo sorgente dal mare. Quanto a un altro cibo, il comune wafer,
si potrà ricavarne le ali per il precario volo di un Icaro dei nostri tempi, a sua volta mutato, con tocco di bacchetta magica, in una corpulenta sardina. Potrebbe sembrare che in questo repertorio volutamente eclettico ci sia una predominanza di forme comunque, figurative o no, compatte e “chiuse” in contorni ben marcati. Non è certo così quando Testa ci spiattella, quasi all’atto di congedarsi da noi, una caduta di spaghetti in libertà, a costituire una folta selva, degna di quanto gli artisti di punta ci hanno offerto negli ultimi anni dandoci delle Installazioni, delle foreste artificiali, ottenute con materiali di sintesi, come del resto gli stessi spaghetti vengono dal regno dell’artificio più che della natura. Ma Testa ci ha abituato a imbrogliare continuamente i vari codici, stilistici e merceologici.
Tutti gli ismi di Armando Testa, a cura di Gianfranco Maraniello. Rovereto, MART, fino al 15 ottobre.

Standard