Arte

Il barocco leccese

Alcuni dei pochi lettori che mi seguono su queste pagine hanno espresso meraviglia nel vedere che non vi ho trattato la questione dei graffiti e della “street art” che sta imperversando a Bologna. Contavo di parlarne dalle colonne del “Corriere di Bologna”, organo locale del quotidiano nazionale, ma a quanto pare anche là hanno deciso di rottamarmi, ora però ho una carta di riserva, il quotidiano “L’Unità”, e infatti affiderò ad esso le mie riflessioni in merito. Ma siccome potrebbero sfuggire al mio poco pubblico, non potendo dirgli in quale data questo mio articolo uscirà, mi impegno a metterlo anche in questo luogo domenica prossima. Per il momento mi dedico a un tema extra-vagante. Infatti nei giorni scorsi sono stato a Lecce per presentare l’opera fotografica di una valida artista del luogo, Rita Tondo, che con la macchina fotografica ha condotto una interessante perlustrazione di quella vegetazione sui generis che oggi cresce sui tetti, negli attici e altane delle nostre case, fatta di antenne di tutti i tipi, come steli di piante che si elevano verso l’alto per assorbire energie, qualche volta dando luogo anche a dei bulbi, che sarebbero poi le antenne paraboliche. Questo lo scopo primario del mio soggiorno nel capoluogo del Salento, che però mi ha lasciato anche il tempo di condurre per qualche ora una visita dettagliata delle decine di chiese in cui si manifesta il ben noto fenomeno del barocco leccese, mettendomi così in grado di stendere alcune osservazioni su di esso, forse alquanto dilettantesche, ma valide, almeno spero, come referti attenti e scrupolosi.
Diciamo subito che il termine di barocco va immediatamente alleggerito, dato che sono chiese ed edifici di fine ‘600 e primi ‘700, si tratta cioè di quella fase avviata a un illanguidimento, o presago di una estinzione, che si qualifica appunto con un diminutivo, barocchetto, forse meglio ancora parlare di stile “rocaille”, rococò, con cui si tocca subito un suo aspetto fondamentale che sembra farne più un fenomeno geologico che artistico. Ovvero, questi vari edifici presentano una omogeneità incredibile, da una sede all’altra si ritrovano le medesime facciate, quasi che fossero uscite tutte da un unico cantiere. C’è un’anonimia di fondo, tra i vari architetti, difficile che un nome si affermi sugli altri, in quanto partecipano tutti a un fenomeno collettivo, a una “lingua” comune. Il che vale in primis per le strutture di queste creazioni architettoniche, anch’esse alquanto indifferenziate, con una tipologia che passa quasi senza sostanziali varianti dalle une alle altre, proprio come succede nei fenomeni geologici, quando nel fondo del mare si formano stratificazioni sedimentarie che poi terremoti o bradisismi contribuiscono a spingere in su e a far affiorare. Mi viene in mente, per esempio, il grande episodio delle Dolomiti. Dopotutto, anche in questo caso si presenta un’unica materia, candida, o animata da caldi riflessi rosati. Materia plastica, oltretutto, morbida, pronta a registrare tutte le imprimiture che può ricevere dal caso. Del resto, questa materia così facilmente modellabile si imparenta subito con altri materiali ugualmente precari che appartengono alla tradizione leccese, come la cartapesta, e la ceramica, peraltro condivisa con tutte le civiltà mediterranee, e cara anche ad altre popolazioni sparse nel mondo. E dunque, quello che conta, è il fine lavorio decorativo che si incide sui muri, capace di un’infinita varietà di soluzioni, che così vanno a compensare la monotonia e poca capacità inventiva manifestate invece dalle strutture portanti, quasi che queste dovessero abbassarsi appena al rango di docili supporti, incaricati solo del compito di reggere quell’infinito lavorio espresso da moti leggeri, pazientemente insistenti, come potrebbe essere l’infrangersi delle onde a picchiettare i massi, con una specie di digitazione naturale, o il soffiare di brezze capaci di infiggere leggere abrasioni.
Il passo indietro compiuto dalle strutture portanti riguarda anche le statue di santi e di personaggi mitologici, che tendono anch’esse ad assottigliarsi, quasi per essere assorbite dalla tendenza aniconica prevalente, quasi che alla base di tutto agisse una iconoclastia di fondo, anche se non apertamente ostentata. Le icone ci sono, ma appunto ridotte nei formati, e soprattutto quasi sempre duplicate, reiterate, usate insomma anch’esse alla maniera di schemi decorativi, così da farsi assorbire dai motivi vegetali, da panoplie o meglio cornucopie di frutti e fiori riversati a piene mani. Insomma, la mancanza di fantasia, di estro inventivo e di individualismo, che si devono registrare a livello “macro”, trovano compenso in una esuberante fantasia a livello “micro”, che sa variare all’infinito le modalità di intervento. Queste possono essere considerate o in scala ascendente o discendente, si può partire cioè dalle digitazioni impresse sugli zoccoli di base, con un picchiettio minuzioso che, come già dicevo, sembrerebbe non prodotto da mano umana ma proprio dell’eterno pulsare delle onde, come succede agli scogli, che così diventano schiumosi, alveolati. Poi compaiono come delle capsule o dei coriandoli, infine cominciano a prendere posto i motivi floreali e vegetali, infine, certo svettano icone di esseri umani, ma pur sempre impedite di assumere un eccesso di rilievo autonomo, chiamate a confondersi a livello di formazioni collettive. Oppure svettanti, sì, ma a patto di apparire come scogli emergenti dalle acque, e lavorati ai fianchi, resi spugnosi dall’eterno battere delle onde. Si potrebbe anche parlare dell’intervento di un fanciullino malizioso e scapricciato, ma investito di poteri giganteschi, che lascia colare dalle mani la sabbia intrisa d’acqua e con questa fa nascere guglie appuntite, ardite, ma sempre a un passo dal crollare, vittime della loro stessa fragilità. Oppure si può parlare anche di un pasticcere o di un cuoco intenti a far sgorgare da un soffietto a imbuto un flusso di crema o di maionese. Se si penetra all’interno delle chiese, un aspetto dominante è dato dalla presenza di colonne tortili, che certo sono un simbolo dell’età barocca, a cominciare da quelle progettate dal Bernini per l’altare di S. Pietro. Ma il rappresentante numero uno di quello stile, se fosse venuto a contemplare le varianti offerte dai suoi nipotini, forse li avrebbe redarguiti, in quanto la tensione e torsione dinamica, che nel suo caso si impongono lucide e intatte, nel loro trattamento divengono un pretesto per tempestare quelle superfici dei soliti motivi decorativi, e anche qui si può fare riferimento a una metafora in chiave marinara, come fossero pali immersi in acqua per farvi aderire una popolazione di cozze e telline e altri frutti di mare, ancora una volta degradando l’elemento strutturale a corpo di sostegno. Se quella intrusione parassitaria fosse spazzata via, le colonnine tortili denuncerebbero una loro pochezza e inconcludenza, Va da sé che anche a loro proposito scatta il meccanismo dell’abbondanza, della reiterazione, infatti il più delle volte queste non si presentano una a alla volta, bensì a coppie. Di fronte a tanta invadenza e virulenza del manto decorativo, il posto riservato ai dipinti è ben poca cosa, questi, in genere a tinte scure, annerite, quasi non si vedono, o fungono come opportune cesure per ammirare ancor più lo splendore abbagliante delle cornici fiorite che li circondano, e che sole costituiscono un oggetto degno di contemplazione.

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