Arte

Il karaoke da Oldenburg a Jeff Koons

A New York la Pace Gallery dedica una mostra non soltanto al grande Claes Oldenburg, ma lo associa alla donna che gli è stata accanto e che ha contribuito alla concezione di molti suoi lavori, Coosje van Bruggen, infatti la mostra si intitola “ A Duet”. Ovviamente, come tutti, ho inneggiato ampiamente nei miei scritti alla grandezza di colui che forse si può considerare il numero uno della Pop Art statunitense. Nei suoi confronti posso anche vantarmi di avere avuto una curiosa fase di avanscoperta o di premonizione. Basterebbe andare a una mostra che ho tenuto nel 1962, a Bologna, messa su dal grande Momi Arcangeli, e ora ripresa in un mio ritorno alla pittura, purtroppo funestato dalle stupide proibizioni del ministro Franceschini. Questa mia mostra recente si teneva proprio nell’ex-Istituto d’arte di Bologna, che ora giustamente porta proprio il grande nome di Francesco Arcangeli, e conteneva una piccola campionatura di quanto avevo fatto un mezzo secolo prima, in un percorso che mi portava fuori dall’Informale e che veleggiava proprio verso soluzioni alla Oldenburg, allora a me, e credo a tutti gli Italiani, al momento sconosciute. In quei dipinti a tempera mi lasciavo alle spalle l’Informale, che avevo recepito soprattutto nella versione Fautrier, consistente come in ammassi organici, di corpi umani sfatti e decomposti, o forse meglio, di formaggi molli, sul tipo del camembert. Ma avevo ben capito che il destino della mia generazione, di nati negli anni ’30, era di lasciarci alle spalle quelle masse amorfe e di andare verso un panorama di oggetti, che allora, grazie al rilancio dell’industria, facevano la loro ricomparsa. Nella mia personale fattispecie, le masse amorfe concepite da Fautrier assumevano la modellazione più robusta e determinata di un divano-letto dove a quel tempo dormivo. Ma beninteso Oldenburg procedeva con spinta maggiore, avendo il coraggio di dare a quegli oggetti, risalenti dalla palude dell’informe, una piena consistenza volumetrica, cosa che né Fautrier, e tanto meno io, avevamo osato tentare. Ma in un primo tempo non per niente Oldeburg si era rivolto proprio al cibo, agli hamburger, ai panini imbotti, come prima tappa di quel riemergere dalla fossa dell’informe. Poi le parvenze strumentali si erano ingrossate, e nello stesso tempo erano divenute più rigide, ma senza mai dimenticare quella matrice dell’indeterminato da cui sbucavano fuori. In ogni caso, il mondo oggettuale fatto nascere da Oldenburg si indirizzata ai bisogni primari del consumismo, a strumenti essenziali, sia del lavoro, le famose macchine da scrivere o i vater, vittime di uno schiacciamento, sia di una cosmesi, essenziale e grossolana. Ed è stata una fase eroica, indimenticabile. Ma varcato il nuovo secolo, credo che nella produzione del nostro artista, e sempre con al fianco i consigli della compagna, sia intervenuta una mutazione. In formula potrei dire che è avvenuta una sorta di “feed back che, se volessimo ragionare alla grande, potrebbe ricordarci quella avvenuta tanto tempo prima, e in modi puramente pittorici, tra Giovanni Bellini e Giorgione. Oldenburg ha senza dubbio passato la palla a Jeff Koons, ma il nuovo arrivato, pur accettando il fare grande, l’uscir fuori dalle due dimensioni per invadere la più ostentata volumetria, ha pure capito che era finita la stagione dei bisogni primari, che lo sviluppo sociologico del consumi implicava che si passasse ormai a coltivare il secondario, il superfluo, il kitsch. Ebbene, il nostro Duetto lo ha seguito per questa strada, si veda l’opera che della attuale mostra newyorkese costituisce il principale richiamo, si tratta di un bouquet di fiori, naturalmente ricostruito a proporzioni gigantesche, come di un Gulliver giunto a Brobdignanc, e del tema in definitiva ozioso, superfluo, c’è pure la frivolezza dei colori, tra cui dominano i rosa, sconosciuti nella fase oldenburghiana precedente. Del resto, a Milano c’’è il prototipo di questa mutazione intervenuta nel repertorio e nella sensibilità della nostra coppia, Si pensi a quella guglia di filo che emerge, civettuola, aggraziata, presso la stazione Cadorna. In altre stagioni Oldenburg vi avrebbe messo qualcosa di più serioso ed essenziale, ora si è arreso a un monumento dedicato al superfluo, al marginale, accettando anche una conseguente estenuazione di forme, e una colorazione anch’essa frivola. Ma nulla di male, siamo in presenza di due giganti, Oldenburg e Koons, che si sono passati la palla, che hanno condotto tra loro un perfetto karaoke.
Oldenburg e Van Bruggen, A Duet. New York, Pace Gallery, fino al 9 maggio.

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