Molto a proposito la “Lettura” di oggi dedica la copertina, come sempre selezionata con gusto efficace da Gianluigi Colin, all’artista statunitense Keith Sonnier, in mostra proprio a Milano, Galleria Fumagalli, con presenza che viene a interrompere un lungo periodo di assenza di questo artista dalle nostre parti, al punto che, confesso, lo credevo addirittura scomparso, mentre al contrario egli è vivo (nato nel 1941) e del tutto attivo. In esposizione ci sono i suoi “light works”, in sostanza, opere realizzate con tubi al neon, il che mi porta a riprendere un discorso già svolto appena domenica scorsa, ricordando ancora una volta il merito pionieristico del nostro Lucio Fontana, che fin dagli anni ’50 aveva ben inteso quale uso si potesse fare di quel ritrovato tecnologico per invadere l’ambiente, in modo più sostanzioso di quanto egli stesso non facesse bucando o squarciando la tela, dove la tela stessa bloccava l’infrazione e la rendeva meno decisiva. Inoltre, Fontana aveva il merito aggiunto di usare quelle lingue di luce con tratti sinuosi, biomorfi, mentre un suo successore, Dan Flavin, ne avrebbe fatto un uso rigido, rettilineo, secondo i parametri di un Mininimalismo ortodosso. In seguito la parola passò all’artista californiana Bruce Nauman che ben comprese la possibilità di sfruttare al massimo la duttilità, di quei tubicini al neon, fino a forgiare con loro dei numeri o delle parole, sostituendoli così ai mezzi grafici tradizionali, e riuscendo a scrivere davvero con la luce. In tal modo si compiva una staffetta col nostro Mario Merz, anche lui pronto usare la luce come mezzo grafico, si trattasse di scandire i numeri della serie di Fibonacci o certe sentenze decisive per la cultura dei nostri giorni. Ma anche di questo ho parlato domenica scorsa a proposito della magnifica mostra degli Igloos dell’artista torinese allo Hangar Bicocca. I “Light works” del nostro Sonnier sono concepiti tutti all’insegna della duttilità più mossa, quasi che volessero sostituire il pennello quando veniva manovrato dagli artisti dell’”action painting”, sul tipo di Mark Tobey, anche lui campione del West degli USA, come poi Nauman, in stretto dialogo con la calligrafia asiatica, e del francese Georges Mathieu, con le sue stoccate da temibile e ardito spadaccino. Tra Nauman e Sonnier, si compie proprio quel passaggio che a suo tempo io ho definito come l’abbandono dell’Informale “caldo”, cioè affidato alla manualità del pennello, a favore di un un Informale da dirsi freddo o tecnologico, dove appunto il pennello, e la relativa gestualità scoperta e immediata, risultavano sostituiti, ma con pari efficacia, da uno strumento tecnologico. Se si sta a certa borsa ufficiale dei valori, Nauman, almeno qui in Europa, ha oscurato il collega, concorrente, “competitor”, ottenendo una celebrità che però a mio avviso è stata messa a dura prova quando l’artista californiano ha piegato proprio la corsività del neon fino a comporre scenette di basso erotismo, approfittando anche della capacità di quei segmenti di accendersi e spegnersi a ritmo alterno, come avviene in tutti i messaggi pubblicitari, così da dare l’impressione di un movimento, e rendendo palese il compiersi dell’atto sessuale. Ma è stato un modo di “divertirsi”, quasi da fare concorrenza alle insegne dei sex shops. Sonnier si è comportato sempre più seriamente nelle sue applicazioni di quegli strumenti, il che però forse gli è costata quella certa dimenticanza da cui è rimasto colpito, almeno dalle nostre parti. Ma nessuno lo può battere nell’elasticità e felicita con cui ricorre proprio a quelle fiammelle di luce, davvero del tutto simili a pennellate schiette, dotandole prima di tutto del colore, giallo, verde, blu, e poi aggrovigliandole, portandole a intersecarsi tra loro, a sovrapporsi, oppure offrendole in cerchi, in forme più essenziali e geometriche, ma sempre all’insegna della mobilità più pronta e suggestiva.
Keith Sonnier, Light works, 1968 to 2017. Milano, Galleria Fumagalli, fino al 19 dicembre.