Arte

La grande parabola di Kounellis

E’ patetica la pretesa di artisti e galleristi di partecipare dalla porta di servizio alle grandi mostre internazionali, montando baracche effimere ai lati, come fragili imbarcazioni accanto a navi di lungo corso. Questo succede per esempio alla Biennale di Venezia, ma tra una folla di eventi minori e precari, è pur vero che alcuni emergono e chiedono di essere considerati. Di questa natura è la presenza, a Ca’ Pesaro, del grande statunitense Gorky, cui infatti domenica scorsa ho dedicato un commosso omaggio, e ora è giusto farlo pure per Jannis Kounellis (1936-2017), ricordato da Prada a Ca’ Corner, con la curatela affidata al maggiordomo di famiglia, Germano Celant, e si può pure affiancare il dossier dedicatogli da Ludovico Pratesi nell’omonima rivista edita da Giunti. Per quanto mi riguarda mi sono espresso più volte a favore di questo artista, anche non più tardi del ’13 in una mostra molto completa tenutasi a Trieste, quando ancora scrivevo sull’”Unità”. Quindi conosco bene la via da seguire, ben ricordata dalla presente mostra. Che parte dai primi ’60, quando Kounellis praticava quella che venne anche detta arte “segnaletica”, una variante, così sembrava, tra il Pop e l’Optical, con quei profili rubati dai segnali stradali. Ma in realtà erano già dei tracciati di una specie di Land Art avanti lettera, indicavano dei percorsi da condurre nella realtà, e con l’intero corpo. Anche in alcuni lavori successivi poteva scattare un falso miraggio di specie Pop, perché si trattava di fiori, di corolle ingrandite, ma nel loro centro l’artista inseriva delle fiamme emesse da becchi a gas, col che cambiava tutto, si usciva da un puro universo di immagini, iconico, per affrontare in presa diretta una animazione vitale dello spazio. Era anche un modo di distaccare la propria sorte da quella di Ceroli e di Pascali, erroneamente ascritti all’Arte povera, mentre la loro pur industriosa ricerca di materiali, che potevano magari anche essere “poveri” all’origine, veniva però piegata a intenti iconici che ne spegnevano l’esuberanza, Questa invece sopravviveva intatta nelle produzioni dell’artista greco-romano, che con D’Annunzio, allora e in seguito, avrebbe potuto proclamare “la fiamma è bella”. E uno dei miei primi incontri con lui avvenne proprio sotto questo segno propizio. Fu nel ’69, quando inaugurai le prese televisive dirette, con una attrezzatura rudimentale fornitami dalla Philips, andando a trovarlo nella sua residenza romana, in una stanza col pavimento costituito da piastrelle alterne chiare e scure, dove lui aveva posto delle formelle di combustibile, di metaldeide, accendendole e affidandone allegramente la fiamma ai tempi lunghi della loro consunzione. Il fuoco, dunque, come elemento “povero”, vale a dire primario, seguito fino in fondo, fino al suo mutarsi in elementi combusti, investiti di un nero corvino, che in definitiva, in termini statistici, è la risultante prevalente dei lavori del nostro artista. Il carbone evoca la presenza di sacchi per contenerlo, o per farlo scappar fuori dai loro squarci, ma nulla in comune con le tele di sacco di Burri, artista abbastanza negato alla terza dimensione, tutto teso in spettacoli di superficie, laddove Kounellis ha sempre puntato all’azione. Magari chiedendo su questa strada l’aiuto del movimento animale, da qui le esibizioni sfacciate, clamorose, sbalorditive, prima di un pappagallo dal becco aguzzo, svolazzante nello spazio ristretto della Galleria l’Attico, ben presto sostituito, quando il geniale gestore dei suoi primi tempi, Fabio Sargentini, aveva compreso che al suo furore ci voleva ben altro spazio, e gli aveva fornito il garage di piazzale Flaminio, dove il compito di esprimere l’ardore vitalistico venne affidato a maestose presenze equine. Ma non mi voglio dilungare a seguire un percorso per un verso colmo di soprese, di innovazioni, non prive neppure di qualche passo falso, di qualche tentativo non del tutto riuscito, peraltro sempre nel nome di una coerenza di fondo, forse proprio intestabile al binomio fuoco-cenere, tizzoni di carbone portato all’incandescenza o invece spento, al modo di meteoriti che piovono sulla terra e intanto cessano di brillare. Un’altra occasione di incontro con lui fu nel ’74, alla mostra La ripetizione differente presso il milanese Studio Marconi, dove Kounellis diede la migliore dimostrazione della sua capacità di lasciare il presente per un lontano passato mitico, magari recuperando le radici della grecità, offrendo su un tavolo i frammenti di una statua classica, al suono di un flauto da rito sacro, il tutto sovrastato da una enigmatica presenza di un corvo, quasi a conferma del perenne ricorso a un nero “corvino”. Beninteso era il corvo di Edgar Alla Poe, che con un piccolo sforzo di immaginazione avremmo potuto sentire mormorare il “Nevermore”, ovvero la fuga dal presente per un libero vagabondaggio in tutte le età del tempo, una attualità lacerante, un passato angosciante, un futuro imprevedibile.
Jannis Kounellis, Tradizione è rivoluzione, a cura di Germano Celant. Venezia, Ca’ Corner, fino al 24 novembre. Dossier Kounellis, a cura di Ludovico Pratesi, in “Arte e dossier”, n. 366, giugno 2019,

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