Il mio suggeritore di queste tornate, Artribune, annuncia che proprio oggi, sabato 26 dicembre, su Sky arte comparirà un documentario dedicato alla Madonna Sistina di Raffaello. Preferisco giocare d’anticipo parlando di mia iniziativa di questo capolavoro, una delle opere più intense del divino artefice, che ha la particolarità di essere dipinta su tela, cosa rara per quei tempi, ma certo il materiale “tenero” contribuisce alla sofficità del dipinto, mentre dipingendo su tavola, come era abitudine per quei tempi, Raffaello doveva sostenere una battaglia con la durezza del materiale di base. Intanto, ritengo anch’io che il Sisto invocato nel titolo non abbia nulla a che fare con i papi Della Rovere, anche se è probabile che proprio S. Sisto sia ispirato da Giulio II, come indica la tipica barba del personaggio. Pare dunque che siano stati proprio degli ecclesiastici di Piacenza a commissionare il dipinto, poi finito nelle mani del Granduca di Sassonia e da lui appoggiato a Dresda, dove tuttora risiede e risplende. Fra le numerose Madonne e Bambino uscite dalle mani dell’Urbinate questa è forse la più dolce, più trepidante, commovente, anche se praticamente immobile, o forse proprio per questo, per una enorme concentrazione espressiva. I due Santi ai lati sono prodigi di disinvoltura, con quelle pose che fanno coro alla scioltezza dell’immagine centrale. S. Sisto è di tre quarti, S. Barbara piega con perfetta naturalezza la testa verso di noi, mentre il corpo è rivolto alla coppia centrale. La scena, insomma, è più sottilmente animata di quanto non sia un altro capolavoro che si ritiene della medesima data, del secondo decennio romano dell’Urbinate, la S. Cecilia di Bologna, dove i vari personaggi non sfuggono a una certa rigidità nella loro ostentata verticale. Qui è pure da notare la sottigliezza dell’”aere perso” che avvolge, accarezza, ammorbidisce le poche figure ammesse. C’è quasi da rallegrarsi che l’artista non sia ricorso a quell’oscuramento forzato che stava prevalendo, soprattutto nei ritratti, anche se si trattava di una mossa vincente, di un enorme lascito a favore di tutti i futuri protagonisti della “modernità”, da Caravaggio a Rubens a Rembrandt. In proposito mi piace replicare una osservazione da me già più volte avanzata, ma nella trascuranza assoluta dei pretesi intenditori dell’arte raffaellesca. Un capolavoro del precedente periodo fiorentino quale La Madonna del Granduca era nato “in chiaro”, e solo portandoselo dietro a Roma Raffaello aveva fatto il salto rivoluzionario di dargli uno sfondo scuro. Ma qui per fortuna l’aria è trepidante, respirante, osmotica come il cielo della Disputa del Sacramento, nella prima delle Stanze, anzi, sembra che queste apparizioni ridotte ne siano appena scese, mantenendo in pieno il medesimo palpito e respiro. Un dettaglio da notare sono i due angioletti in basso, dipinti con la stessa grazia, scioltezza, mobilità, ma perfino in misura eccessiva. Un pittore troppo padrone del suoi mezzi in quel caso si era compiaciuto di esibirli allo scoperto, fino a sfiorare un effetto lezioso, quasi un campanello di pericolo, fino a che punto di aneddotismo libero e sciolto il maestro sarebbe giunto, continuando per quella strada? Forse proprio tanta disinvoltura stava agendo sui discepoli, e in primo luogo sull’erede designato, Giulio Romano, fino a fargli intendere che conveniva seguire altro cammino e preparare la svolta manierista. Ovvero, il Cinquecento doveva inserire un motivo di pausa e di diversione rispetto a tanta maturità, che minacciava di invadere le terre del Seicento molto prima del tempo. Ci voleva una gelata per fermare quella primavera, o addirittura estate, troppo precoce.