Arte

La nostra attuale felice condizione di glocalismo

Non so se qualcuno si è accorto che domenica scorsa, 28 febbraio, per la prima volta dopo molte settimane ho mancato al rito di infilare nel blog i soliti commenti, ma forse il mio è un soliloquio allo specchio, destinato a cadere nel vuoto. Era che mi trovavo a Medellin, seconda città della Colombia, dietro alla capitale Bogotà, città bellissima, situata in una valle lunga e stretta, immersa in un delizioso clima tropicale, di eterna sospensione tra una tarda primavera e una incipiente estate, e confortata da una magnifica vegetazione che mi fa rimpiangere di non essermi dedicato alla botanica per riconoscere alberi, arbusti, fiori, quasi tutti ignoti dalle nostre parti. Mi sono trovato in quel luogo sia per onorare Carlos Arturo Fernàndez, un mio ex-allievo alla nostra Scuola di perfezionamento, poi divenuto mio brillante collega nella Università locale, detta di Antiochia dal nome dell’intera provincia, dove mi ha chiamato più volte a presentare le mie teorie, come è avvenuto anche nei giorni passati, in cui, oltre a rendergli pubblico omaggio, ho pure esposto a grandi linee la mia concezione degli stretti rapporti tra le arti e la cultura materiale delle epoche relative, ovvero delle tecnologie volta a volta dominanti. Medellin è tutt’altro che un deserto per quanto rigurda l’arte di oggi. Per intenderci, è la città natale di Botero, e forse l’unico luogo al mondo dove sia possibile dare un senso alla sua arte bolsa, vanamente gonfia e plastica, per la buona ragione che attorno alle sue statue di bronzo, che costellano la piazza principale della città, circolano i modelli viventi in carne e ossa, un tipo muliebre di impianto andino, tozzo e robusto, e dunque si dà un rapporto naturale, dagli esemplari viventi alle loro immagini immobilizzate, il che non succede in nessuna altra parte del mondo, e non giustifica il culto incomprensibile che anche dalle nostre parti si rivolge a questo autore. Il quale, per fortuna, non trova seguito neppure tra i giovani suoi connazionali, come si può vedere da una Biennale che Medellin organizza a scadenze regolari, e anche da visite alle gallerie di punta del luogo. Ritornerò su questi aspetti, anzi, sarebbe mia intenzione riprendere il rito delle Officine rivolte a perlustrare la creatività giovanile nelle diverse aree del pianeta, se solo le autorità della nostra Regione mi daranno, come in un lontano passato, un contributo adeguato. Ma al momento mi preme accennare a una conclusione di grande importanza cui sono giunto nel concludere, in quattro puntate, la mia perlustrazione lungo le diverse età della storia della cultura e i relativi rapporti con le tecnologie dominanti. Ebbene, questa è la prima volta nell’intera storia del pianeta che l’umanità si trova a partecipare di una medesima tecnologia, fondata, inutile dirlo, sull’elettromagnetismo o meglio ancora sull’elettronica. Per le strade di Medellin e nei vari locali i cittadini sono chini, esattamente come succede da noi, a interrogare gli smartphone, o prendono selfies, o consultano dati attraverso internet. Siamo in una terra che a suo tempo ha subito il rovinoso impatto tra la cultura occidentale avanzata, giunta coi “conquistadores”, e le forme arretrate delle comunità locali. Anche oggi, per carità, la diffusione della tecnologia elettronica può darsi che cozzi con residui di economie rurali arcaiche, o con arretrate forme di industrialismo non rinnovato, ma i giovani, e con loro tutti gli operatori del livello alto-simbolico, lanciati a prevenire le vie del futuro e a batterle già con coraggio, sono ormai accomunati con i loro colleghi delle culture occidentali nel valersi del “triangolo di Kosuth”, cioè del più avanzato traguardo raggiunto nell’ultima rivoluzione occidentale, quella avvenuta nel ’68, e che ha portato l’Occidente all’uso parossistico dell’oggetto assunto tale e quale, come ready-made, con lo sviluppo in installazioni “site specific”, o in fotografia, col prolungamento del video, o con definizioni linguistiche. Ma infine accanto alla diffusione di questi elementi essenziali è forse un merito proprio delle culture extra-occidentali l’aver imposto pure il recupero della pittura, seppure nelle forme “novantiche” del graffitismo-muralismo, nonché promuovendo pure il recupero di una componente che il nostro Occidente, nel suo nudo e arido funzionalismo, aveva depresso e squalificato, la decorazione, propiziata, questa, anche dal fatto che le scritture di tipo ideografico, o comunque lontane dallo schematismo imposto dal ricorso all’alfabeto, con la sua povertà di segni e lo schematismo con cui vengono tracciati, favoriscono un esuberante intervento della fantasia, del piacere dell’ornamento. Insomma, nelle arti visive sono finiti i gap, gli spareggi, i dislivelli tra le varie etnie e situazioni geografiche e condizioni di vita, almeno a livello alto-sperimentale, il che ha portato pure a una sostanziale parificazione degli apporti sessuali, le donne, sempre almeno se ci rivolgiamo all’area privilegiata dei lavori avanzati, ormai sono in un numero crescente e non patiscono più un’inferiorità rispetto ai colleghi dell’altro sesso. Proclamata una simile unificazione di piattaforme operative, conviene far scattare pure un altro fattore favorevole: questa unificazione non produce la temuta globalizzazione, una omogeneità di risultati, in quanto gli strumenti oggi di uso comune consentono però che ciascuna etnia o area storico-geografica li rivolga al recupero delle proprie radici, il che porta a una piacevole e interessante varietà di risultati. E’ il fenomeno noto ricorrendo alla congiunzione di due radici verbali, il “globale” e il “locale”, dal che nasce una decisiva condizione di “glocalismo”. Credo che su questo tasto si dovrà insistere ripetutamente.Non so se qualcuno si è accorto che domenica scorsa, 28 febbraio, per la prima volta dopo molte settimane ho mancato al rito di infilare nel blog i soliti commenti, ma forse il mio è un soliloquio allo specchio, destinato a cadere nel vuoto. Era che mi trovavo a Medellin, seconda città della Colombia, dietro alla capitale Bogotà, città bellissima, situata in una valle lunga e stretta, immersa in un delizioso clima tropicale, di eterna sospensione tra una tarda primavera e una incipiente estate, e confortata da una magnifica vegetazione che mi fa rimpiangere di non essermi dedicato alla botanica per riconoscere alberi, arbusti, fiori, quasi tutti ignoti dalle nostre parti. Mi sono trovato in quel luogo sia per onorare Carlos Arturo Fernàndez, un mio ex-allievo alla nostra Scuola di perfezionamento, poi divenuto mio brillante collega nella Università locale, detta di Antiochia dal nome dell’intera provincia, dove mi ha chiamato più volte a presentare le mie teorie, come è avvenuto anche nei giorni passati, in cui, oltre a rendergli pubblico omaggio, ho pure esposto a grandi linee la mia concezione degli stretti rapporti tra le arti e la cultura materiale delle epoche relative, ovvero delle tecnologie volta a volta dominanti. Medellin è tutt’altro che un deserto per quanto rigurda l’arte di oggi. Per intenderci, è la città natale di Botero, e forse l’unico luogo al mondo dove sia possibile dare un senso alla sua arte bolsa, vanamente gonfia e plastica, per la buona ragione che attorno alle sue statue di bronzo, che costellano la piazza principale della città, circolano i modelli viventi in carne e ossa, un tipo muliebre di impianto andino, tozzo e robusto, e dunque si dà un rapporto naturale, dagli esemplari viventi alle loro immagini immobilizzate, il che non succede in nessuna altra parte del mondo, e non giustifica il culto incomprensibile che anche dalle nostre parti si rivolge a questo autore. Il quale, per fortuna, non trova seguito neppure tra i giovani suoi connazionali, come si può vedere da una Biennale che Medellin organizza a scadenze regolari, e anche da visite alle gallerie di punta del luogo. Ritornerò su questi aspetti, anzi, sarebbe mia intenzione riprendere il rito delle Officine rivolte a perlustrare la creatività giovanile nelle diverse aree del pianeta, se solo le autorità della nostra Regione mi daranno, come in un lontano passato, un contributo adeguato. Ma al momento mi preme accennare a una conclusione di grande importanza cui sono giunto nel concludere, in quattro puntate, la mia perlustrazione lungo le diverse età della storia della cultura e i relativi rapporti con le tecnologie dominanti. Ebbene, questa è la prima volta nell’intera storia del pianeta che l’umanità si trova a partecipare di una medesima tecnologia, fondata, inutile dirlo, sull’elettromagnetismo o meglio ancora sull’elettronica. Per le strade di Medellin e nei vari locali i cittadini sono chini, esattamente come succede da noi, a interrogare gli smartphone, o prendono selfies, o consultano dati attraverso internet. Siamo in una terra che a suo tempo ha subito il rovinoso impatto tra la cultura occidentale avanzata, giunta coi “conquistadores”, e le forme arretrate delle comunità locali. Anche oggi, per carità, la diffusione della tecnologia elettronica può darsi che cozzi con residui di economie rurali arcaiche, o con arretrate forme di industrialismo non rinnovato, ma i giovani, e con loro tutti gli operatori del livello alto-simbolico, lanciati a prevenire le vie del futuro e a batterle già con coraggio, sono ormai accomunati con i loro colleghi delle culture occidentali nel valersi del “triangolo di Kosuth”, cioè del più avanzato traguardo raggiunto nell’ultima rivoluzione occidentale, quella avvenuta nel ’68, e che ha portato l’Occidente all’uso parossistico dell’oggetto assunto tale e quale, come ready-made, con lo sviluppo in installazioni “site specific”, o in fotografia, col prolungamento del video, o con definizioni linguistiche. Ma infine accanto alla diffusione di questi elementi essenziali è forse un merito proprio delle culture extra-occidentali l’aver imposto pure il recupero della pittura, seppure nelle forme “novantiche” del graffitismo-muralismo, nonché promuovendo pure il recupero di una componente che il nostro Occidente, nel suo nudo e arido funzionalismo, aveva depresso e squalificato, la decorazione, propiziata, questa, anche dal fatto che le scritture di tipo ideografico, o comunque lontane dallo schematismo imposto dal ricorso all’alfabeto, con la sua povertà di segni e lo schematismo con cui vengono tracciati, favoriscono un esuberante intervento della fantasia, del piacere dell’ornamento. Insomma, nelle arti visive sono finiti i gap, gli spareggi, i dislivelli tra le varie etnie e situazioni geografiche e condizioni di vita, almeno a livello alto-sperimentale, il che ha portato pure a una sostanziale parificazione degli apporti sessuali, le donne, sempre almeno se ci rivolgiamo all’area privilegiata dei lavori avanzati, ormai sono in un numero crescente e non patiscono più un’inferiorità rispetto ai colleghi dell’altro sesso. Proclamata una simile unificazione di piattaforme operative, conviene far scattare pure un altro fattore favorevole: questa unificazione non produce la temuta globalizzazione, una omogeneità di risultati, in quanto gli strumenti oggi di uso comune consentono però che ciascuna etnia o area storico-geografica li rivolga al recupero delle proprie radici, il che porta a una piacevole e interessante varietà di risultati. E’ il fenomeno noto ricorrendo alla congiunzione di due radici verbali, il “globale” e il “locale”, dal che nasce una decisiva condizione di “glocalismo”. Credo che su questo tasto si dovrà insistere ripetutamente.Non so se qualcuno si è accorto che domenica scorsa, 28 febbraio, per la prima volta dopo molte settimane ho mancato al rito di infilare nel blog i soliti commenti, ma forse il mio è un soliloquio allo specchio, destinato a cadere nel vuoto. Era che mi trovavo a Medellin, seconda città della Colombia, dietro alla capitale Bogotà, città bellissima, situata in una valle lunga e stretta, immersa in un delizioso clima tropicale, di eterna sospensione tra una tarda primavera e una incipiente estate, e confortata da una magnifica vegetazione che mi fa rimpiangere di non essermi dedicato alla botanica per riconoscere alberi, arbusti, fiori, quasi tutti ignoti dalle nostre parti. Mi sono trovato in quel luogo sia per onorare Carlos Arturo Fernàndez, un mio ex-allievo alla nostra Scuola di perfezionamento, poi divenuto mio brillante collega nella Università locale, detta di Antiochia dal nome dell’intera provincia, dove mi ha chiamato più volte a presentare le mie teorie, come è avvenuto anche nei giorni passati, in cui, oltre a rendergli pubblico omaggio, ho pure esposto a grandi linee la mia concezione degli stretti rapporti tra le arti e la cultura materiale delle epoche relative, ovvero delle tecnologie volta a volta dominanti. Medellin è tutt’altro che un deserto per quanto rigurda l’arte di oggi. Per intenderci, è la città natale di Botero, e forse l’unico luogo al mondo dove sia possibile dare un senso alla sua arte bolsa, vanamente gonfia e plastica, per la buona ragione che attorno alle sue statue di bronzo, che costellano la piazza principale della città, circolano i modelli viventi in carne e ossa, un tipo muliebre di impianto andino, tozzo e robusto, e dunque si dà un rapporto naturale, dagli esemplari viventi alle loro immagini immobilizzate, il che non succede in nessuna altra parte del mondo, e non giustifica il culto incomprensibile che anche dalle nostre parti si rivolge a questo autore. Il quale, per fortuna, non trova seguito neppure tra i giovani suoi connazionali, come si può vedere da una Biennale che Medellin organizza a scadenze regolari, e anche da visite alle gallerie di punta del luogo. Ritornerò su questi aspetti, anzi, sarebbe mia intenzione riprendere il rito delle Officine rivolte a perlustrare la creatività giovanile nelle diverse aree del pianeta, se solo le autorità della nostra Regione mi daranno, come in un lontano passato, un contributo adeguato. Ma al momento mi preme accennare a una conclusione di grande importanza cui sono giunto nel concludere, in quattro puntate, la mia perlustrazione lungo le diverse età della storia della cultura e i relativi rapporti con le tecnologie dominanti. Ebbene, questa è la prima volta nell’intera storia del pianeta che l’umanità si trova a partecipare di una medesima tecnologia, fondata, inutile dirlo, sull’elettromagnetismo o meglio ancora sull’elettronica. Per le strade di Medellin e nei vari locali i cittadini sono chini, esattamente come succede da noi, a interrogare gli smartphone, o prendono selfies, o consultano dati attraverso internet. Siamo in una terra che a suo tempo ha subito il rovinoso impatto tra la cultura occidentale avanzata, giunta coi “conquistadores”, e le forme arretrate delle comunità locali. Anche oggi, per carità, la diffusione della tecnologia elettronica può darsi che cozzi con residui di economie rurali arcaiche, o con arretrate forme di industrialismo non rinnovato, ma i giovani, e con loro tutti gli operatori del livello alto-simbolico, lanciati a prevenire le vie del futuro e a batterle già con coraggio, sono ormai accomunati con i loro colleghi delle culture occidentali nel valersi del “triangolo di Kosuth”, cioè del più avanzato traguardo raggiunto nell’ultima rivoluzione occidentale, quella avvenuta nel ’68, e che ha portato l’Occidente all’uso parossistico dell’oggetto assunto tale e quale, come ready-made, con lo sviluppo in installazioni “site specific”, o in fotografia, col prolungamento del video, o con definizioni linguistiche. Ma infine accanto alla diffusione di questi elementi essenziali è forse un merito proprio delle culture extra-occidentali l’aver imposto pure il recupero della pittura, seppure nelle forme “novantiche” del graffitismo-muralismo, nonché promuovendo pure il recupero di una componente che il nostro Occidente, nel suo nudo e arido funzionalismo, aveva depresso e squalificato, la decorazione, propiziata, questa, anche dal fatto che le scritture di tipo ideografico, o comunque lontane dallo schematismo imposto dal ricorso all’alfabeto, con la sua povertà di segni e lo schematismo con cui vengono tracciati, favoriscono un esuberante intervento della fantasia, del piacere dell’ornamento. Insomma, nelle arti visive sono finiti i gap, gli spareggi, i dislivelli tra le varie etnie e situazioni geografiche e condizioni di vita, almeno a livello alto-sperimentale, il che ha portato pure a una sostanziale parificazione degli apporti sessuali, le donne, sempre almeno se ci rivolgiamo all’area privilegiata dei lavori avanzati, ormai sono in un numero crescente e non patiscono più un’inferiorità rispetto ai colleghi dell’altro sesso. Proclamata una simile unificazione di piattaforme operative, conviene far scattare pure un altro fattore favorevole: questa unificazione non produce la temuta globalizzazione, una omogeneità di risultati, in quanto gli strumenti oggi di uso comune consentono però che ciascuna etnia o area storico-geografica li rivolga al recupero delle proprie radici, il che porta a una piacevole e interessante varietà di risultati. E’ il fenomeno noto ricorrendo alla congiunzione di due radici verbali, il “globale” e il “locale”, dal che nasce una decisiva condizione di “glocalismo”. Credo che su questo tasto si dovrà insistere ripetutamente.Non so se qualcuno si è accorto che domenica scorsa, 28 febbraio, per la prima volta dopo molte settimane ho mancato al rito di infilare nel blog i soliti commenti, ma forse il mio è un soliloquio allo specchio, destinato a cadere nel vuoto. Era che mi trovavo a Medellin, seconda città della Colombia, dietro alla capitale Bogotà, città bellissima, situata in una valle lunga e stretta, immersa in un delizioso clima tropicale, di eterna sospensione tra una tarda primavera e una incipiente estate, e confortata da una magnifica vegetazione che mi fa rimpiangere di non essermi dedicato alla botanica per riconoscere alberi, arbusti, fiori, quasi tutti ignoti dalle nostre parti. Mi sono trovato in quel luogo sia per onorare Carlos Arturo Fernàndez, un mio ex-allievo alla nostra Scuola di perfezionamento, poi divenuto mio brillante collega nella Università locale, detta di Antiochia dal nome dell’intera provincia, dove mi ha chiamato più volte a presentare le mie teorie, come è avvenuto anche nei giorni passati, in cui, oltre a rendergli pubblico omaggio, ho pure esposto a grandi linee la mia concezione degli stretti rapporti tra le arti e la cultura materiale delle epoche relative, ovvero delle tecnologie volta a volta dominanti. Medellin è tutt’altro che un deserto per quanto rigurda l’arte di oggi. Per intenderci, è la città natale di Botero, e forse l’unico luogo al mondo dove sia possibile dare un senso alla sua arte bolsa, vanamente gonfia e plastica, per la buona ragione che attorno alle sue statue di bronzo, che costellano la piazza principale della città, circolano i modelli viventi in carne e ossa, un tipo muliebre di impianto andino, tozzo e robusto, e dunque si dà un rapporto naturale, dagli esemplari viventi alle loro immagini immobilizzate, il che non succede in nessuna altra parte del mondo, e non giustifica il culto incomprensibile che anche dalle nostre parti si rivolge a questo autore. Il quale, per fortuna, non trova seguito neppure tra i giovani suoi connazionali, come si può vedere da una Biennale che Medellin organizza a scadenze regolari, e anche da visite alle gallerie di punta del luogo. Ritornerò su questi aspetti, anzi, sarebbe mia intenzione riprendere il rito delle Officine rivolte a perlustrare la creatività giovanile nelle diverse aree del pianeta, se solo le autorità della nostra Regione mi daranno, come in un lontano passato, un contributo adeguato. Ma al momento mi preme accennare a una conclusione di grande importanza cui sono giunto nel concludere, in quattro puntate, la mia perlustrazione lungo le diverse età della storia della cultura e i relativi rapporti con le tecnologie dominanti. Ebbene, questa è la prima volta nell’intera storia del pianeta che l’umanità si trova a partecipare di una medesima tecnologia, fondata, inutile dirlo, sull’elettromagnetismo o meglio ancora sull’elettronica. Per le strade di Medellin e nei vari locali i cittadini sono chini, esattamente come succede da noi, a interrogare gli smartphone, o prendono selfies, o consultano dati attraverso internet. Siamo in una terra che a suo tempo ha subito il rovinoso impatto tra la cultura occidentale avanzata, giunta coi “conquistadores”, e le forme arretrate delle comunità locali. Anche oggi, per carità, la diffusione della tecnologia elettronica può darsi che cozzi con residui di economie rurali arcaiche, o con arretrate forme di industrialismo non rinnovato, ma i giovani, e con loro tutti gli operatori del livello alto-simbolico, lanciati a prevenire le vie del futuro e a batterle già con coraggio, sono ormai accomunati con i loro colleghi delle culture occidentali nel valersi del “triangolo di Kosuth”, cioè del più avanzato traguardo raggiunto nell’ultima rivoluzione occidentale, quella avvenuta nel ’68, e che ha portato l’Occidente all’uso parossistico dell’oggetto assunto tale e quale, come ready-made, con lo sviluppo in installazioni “site specific”, o in fotografia, col prolungamento del video, o con definizioni linguistiche. Ma infine accanto alla diffusione di questi elementi essenziali è forse un merito proprio delle culture extra-occidentali l’aver imposto pure il recupero della pittura, seppure nelle forme “novantiche” del graffitismo-muralismo, nonché promuovendo pure il recupero di una componente che il nostro Occidente, nel suo nudo e arido funzionalismo, aveva depresso e squalificato, la decorazione, propiziata, questa, anche dal fatto che le scritture di tipo ideografico, o comunque lontane dallo schematismo imposto dal ricorso all’alfabeto, con la sua povertà di segni e lo schematismo con cui vengono tracciati, favoriscono un esuberante intervento della fantasia, del piacere dell’ornamento. Insomma, nelle arti visive sono finiti i gap, gli spareggi, i dislivelli tra le varie etnie e situazioni geografiche e condizioni di vita, almeno a livello alto-sperimentale, il che ha portato pure a una sostanziale parificazione degli apporti sessuali, le donne, sempre almeno se ci rivolgiamo all’area privilegiata dei lavori avanzati, ormai sono in un numero crescente e non patiscono più un’inferiorità rispetto ai colleghi dell’altro sesso. Proclamata una simile unificazione di piattaforme operative, conviene far scattare pure un altro fattore favorevole: questa unificazione non produce la temuta globalizzazione, una omogeneità di risultati, in quanto gli strumenti oggi di uso comune consentono però che ciascuna etnia o area storico-geografica li rivolga al recupero delle proprie radici, il che porta a una piacevole e interessante varietà di risultati. E’ il fenomeno noto ricorrendo alla congiunzione di due radici verbali, il “globale” e il “locale”, dal che nasce una decisiva condizione di “glocalismo”. Credo che su questo tasto si dovrà insistere ripetutamente.Non so se qualcuno si è accorto che domenica scorsa, 28 febbraio, per la prima volta dopo molte settimane ho mancato al rito di infilare nel blog i soliti commenti, ma forse il mio è un soliloquio allo specchio, destinato a cadere nel vuoto. Era che mi trovavo a Medellin, seconda città della Colombia, dietro alla capitale Bogotà, città bellissima, situata in una valle lunga e stretta, immersa in un delizioso clima tropicale, di eterna sospensione tra una tarda primavera e una incipiente estate, e confortata da una magnifica vegetazione che mi fa rimpiangere di non essermi dedicato alla botanica per riconoscere alberi, arbusti, fiori, quasi tutti ignoti dalle nostre parti. Mi sono trovato in quel luogo sia per onorare Carlos Arturo Fernàndez, un mio ex-allievo alla nostra Scuola di perfezionamento, poi divenuto mio brillante collega nella Università locale, detta di Antiochia dal nome dell’intera provincia, dove mi ha chiamato più volte a presentare le mie teorie, come è avvenuto anche nei giorni passati, in cui, oltre a rendergli pubblico omaggio, ho pure esposto a grandi linee la mia concezione degli stretti rapporti tra le arti e la cultura materiale delle epoche relative, ovvero delle tecnologie volta a volta dominanti. Medellin è tutt’altro che un deserto per quanto rigurda l’arte di oggi. Per intenderci, è la città natale di Botero, e forse l’unico luogo al mondo dove sia possibile dare un senso alla sua arte bolsa, vanamente gonfia e plastica, per la buona ragione che attorno alle sue statue di bronzo, che costellano la piazza principale della città, circolano i modelli viventi in carne e ossa, un tipo muliebre di impianto andino, tozzo e robusto, e dunque si dà un rapporto naturale, dagli esemplari viventi alle loro immagini immobilizzate, il che non succede in nessuna altra parte del mondo, e non giustifica il culto incomprensibile che anche dalle nostre parti si rivolge a questo autore. Il quale, per fortuna, non trova seguito neppure tra i giovani suoi connazionali, come si può vedere da una Biennale che Medellin organizza a scadenze regolari, e anche da visite alle gallerie di punta del luogo. Ritornerò su questi aspetti, anzi, sarebbe mia intenzione riprendere il rito delle Officine rivolte a perlustrare la creatività giovanile nelle diverse aree del pianeta, se solo le autorità della nostra Regione mi daranno, come in un lontano passato, un contributo adeguato. Ma al momento mi preme accennare a una conclusione di grande importanza cui sono giunto nel concludere, in quattro puntate, la mia perlustrazione lungo le diverse età della storia della cultura e i relativi rapporti con le tecnologie dominanti. Ebbene, questa è la prima volta nell’intera storia del pianeta che l’umanità si trova a partecipare di una medesima tecnologia, fondata, inutile dirlo, sull’elettromagnetismo o meglio ancora sull’elettronica. Per le strade di Medellin e nei vari locali i cittadini sono chini, esattamente come succede da noi, a interrogare gli smartphone, o prendono selfies, o consultano dati attraverso internet. Siamo in una terra che a suo tempo ha subito il rovinoso impatto tra la cultura occidentale avanzata, giunta coi “conquistadores”, e le forme arretrate delle comunità locali. Anche oggi, per carità, la diffusione della tecnologia elettronica può darsi che cozzi con residui di economie rurali arcaiche, o con arretrate forme di industrialismo non rinnovato, ma i giovani, e con loro tutti gli operatori del livello alto-simbolico, lanciati a prevenire le vie del futuro e a batterle già con coraggio, sono ormai accomunati con i loro colleghi delle culture occidentali nel valersi del “triangolo di Kosuth”, cioè del più avanzato traguardo raggiunto nell’ultima rivoluzione occidentale, quella avvenuta nel ’68, e che ha portato l’Occidente all’uso parossistico dell’oggetto assunto tale e quale, come ready-made, con lo sviluppo in installazioni “site specific”, o in fotografia, col prolungamento del video, o con definizioni linguistiche. Ma infine accanto alla diffusione di questi elementi essenziali è forse un merito proprio delle culture extra-occidentali l’aver imposto pure il recupero della pittura, seppure nelle forme “novantiche” del graffitismo-muralismo, nonché promuovendo pure il recupero di una componente che il nostro Occidente, nel suo nudo e arido funzionalismo, aveva depresso e squalificato, la decorazione, propiziata, questa, anche dal fatto che le scritture di tipo ideografico, o comunque lontane dallo schematismo imposto dal ricorso all’alfabeto, con la sua povertà di segni e lo schematismo con cui vengono tracciati, favoriscono un esuberante intervento della fantasia, del piacere dell’ornamento. Insomma, nelle arti visive sono finiti i gap, gli spareggi, i dislivelli tra le varie etnie e situazioni geografiche e condizioni di vita, almeno a livello alto-sperimentale, il che ha portato pure a una sostanziale parificazione degli apporti sessuali, le donne, sempre almeno se ci rivolgiamo all’area privilegiata dei lavori avanzati, ormai sono in un numero crescente e non patiscono più un’inferiorità rispetto ai colleghi dell’altro sesso. Proclamata una simile unificazione di piattaforme operative, conviene far scattare pure un altro fattore favorevole: questa unificazione non produce la temuta globalizzazione, una omogeneità di risultati, in quanto gli strumenti oggi di uso comune consentono però che ciascuna etnia o area storico-geografica li rivolga al recupero delle proprie radici, il che porta a una piacevole e interessante varietà di risultati. E’ il fenomeno noto ricorrendo alla congiunzione di due radici verbali, il “globale” e il “locale”, dal che nasce una decisiva condizione di “glocalismo”. Credo che su questo tasto si dovrà insistere ripetutamente.

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