Arte

Le fini tessiture di Giorgio Zucchini

Lo Studio Cenacchi di Bologna presenta, alla sua seconda uscita, una bella selezione di dipinti di Giorgio Zucchini, fin dai suoi inizi da me sostenuto, e prontamente inserito tra i Nuovi-nuovi, assieme ad altre presenze bolognesi come Bruno Benuzzi, Marcello Jori, Luigi Ontani, e di conseguenza esposto assieme a loro anche nella corrispondente “stazione” della recente rassegna al Palazzo Fava, “Bologna dopo Morandi”. Davanti a un artista autentico, com’è senza dubbio Zucchini, cerco sempre di risalire alle sue origini e di ricavarne un motivo dominante che poi lo ha accompagnato lungo il cammino, pur dovendo subire, come è opportuno, tante variazioni e metamorfosi. Nel caso di Giorgio, penso a certe installazioni audaci, nello spirito del ’68, che vorrei definire “lucodromi”, in quanto egli allestiva come delle lunghe piste per lo scorrimento di flussi di luce, con la conseguenza di colorare di giallo tutto quanto cadeva sotto quei raggi. In seguito la sua produzione si è coagulata su delle superfici, ma a mio avviso è sempre in azione un fascio di luce che penetra ed evidenzia. Se si vuole una similitudine, si pensi a quanto succede proprio allorché, in una stanza semibuia, l’ingresso della luce mette in evidenza il pulviscolo, i minuti corpi galleggianti nell’aria. Allo stesso modo mi pare che gli industriosi assembramenti di piccole immagini di questi dipinti siano gli ostacoli, volutamente fragili, delicati, sempre sul punto di sparire, incontrati dalla luce che li investe, capaci però di resistere, di affermare malgrado tutto una loro consistenza residua. O si può anche parlare di uno sguardo portato su un volo di farfalle o di altri insetti, capace di inquietarli e di farli volteggiare nell’aria. Insomma, l’artista picchietta le sue superfici, vi inocula con attenzione e pazienza tante piccole inflorescenze, fino a costituire un tappeto, ma a maglie larghe, porose, che consentono al tutto di “respirare”. Questa stessa spiegazione genetica ci dice che Zucchini, nell’ambito dei Nuovi-nuovi, appartiene al ramo degli Aniconici, ovvero dei decorativi, riportabili, per valerci di una espressione nordamericana, al “pattern painting”, che ebbe la sua casa madre a New York nella Galleria di Holly Solomon, e non per nulla ci fu una perfetta intesa tra i Nuovi-nuovi e quel luogo, allora situato nella centralissima Quinta Strada, con Francesca Alinovi a fare da tramite, da ambasciatrice.
Si potrà obiettare che nel repertorio di Zucchini, oltre alle magiche e incantate tappezzerie, si incontrano anche figure, per esempio di nature morte, o anche di omuncoli, ma pure in questo caso i motivi iconici non assumono mai troppa consistenza, non mancano di mostrarsi sottoposti al bombardamento di un flusso luminoso che contribuisce a disgregarli, a renderli incerti, come se fosse il nostro occhio a dare corpo a dei fantasmi, a tentare di leggere persone e cose in un cielo nuvoloso, o comunque in un qualche tessuto, naturale artificiale che sia. Si potrebbe anche pensare a una leonardesca lettura delle macchie sui muri. Un altro effetto di una simile origine di questi prodotti visivi porta a una loro indeterminazione spaziale. Le tele dipinte dall’artista hanno limiti, confini, ma si sente che il suo esercizio potrebbe estendersi all’infinito, come del resto è proprio nella natura degli interventi di carattere decorativo. Potrebbe prolungarsi, per esempio, fino alla misura dei fregi parietali, magari posti in alto, all’incrocio coi soffitti. La preziosa tessitura di Zucchini conosce limiti, ma solo provvisori, ha in sé tanta potenza che potrebbe proseguire all’infinito.
Giorgio Zucchini, Tempera, con testi di Laura Falqui e Raffaele Milani. Bologna, Studio Cenacchi, Via Santo Stefano 63, fino a tutto maggio.

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