Arte

L’insuperabile ballletto di cui è capace Guido Reni

“Perseverare diabolicum”, dice un ben noto proverbio, che credo si adatti all’idea perversa della romana Galleria Borghese, già piena come un uovo di capolavori, che pretende di volervi ficcare dentro a forza qualche omaggio a grandi artisti del passato e del presente. Credo che sia solo per consentire al direttore del momento di entrare nell’agone del mostrismo, mentre rassegne di questa natura troverebbero una collocazione più opportuna in altri spazi romani, magari al momento disoccupati. Però, scorrendo gli eventi espositivi annunciati come in arrivo in quella sede impropria, mi si è imposto all’occhio un capolavoro di Guido Reni, Atakanta e Ippomene in arrivo, non ho capito se nella versione di Capodimonte o del Prado, ma poco cambia, per una valutazione sommaria di quel capolavoro. Che conferma quell’attributo di “divin Guide” che i Francesi gli hanno attribuito, vedendo in lui, più che nel Caravaggio e compagni, il degno campione da porre in congiunzione col “gran siècje”, di Poussin, di Descartes, di Racine. E beninteso subito dietro di lui viene il Domenichino, che ho più volte presentato proprio come l’anticipatore di Poussin. Tutto questo per rettificare la stima spropositata che Roberto Longhi col suo seguito hanno dedicato al Caravaggio, grandissimo, sì, ma nello stesso tempo scomodo, e da accantonare, verso la metà del Seicento. Del resto si erano pure accorti caravaggisti della prima ora, come il nostro Guercino e perfino lo Spagnoletto, Jusepe Ribera, che era ora di tornare a coltivare una lezione di eleganza pausata, ritmica, di cui appunto il divino Guido è stato maestro, come dimostrano le due versioni di questo tema. Se le figure caravaggesche, tranne che nel magico e misterioso primo periodo, affondano nelle tenebre del dramma, della tragedia, le figure di Reni balzano in primo piano, alla ribalta, dove intessono i loro balletti, pieni di grazia, disinvoltura, molle atletismo. Come in questo dipinto, che è una danza sublime di braccia e gambe, protese a tastare lo spazio, a cercarvi un equilibrio arrischiato, chiedendo che proprio le luci della ribalta, ovvero una pittura candida, piena di luce, assecondi quelle elastiche architetture anatomiche, gli dia rilievo, riesca a distaccarle dagli sfondi, invece di immergervele e quasi seppellirle, come vorrebbe la lezione caravaggesca. Nell’occasione non posso fare a meno di ricordare i meriti dell’operazione condotta proprio a Bologna da Cesare Gnudi, e volta a riscattare Guido dal giudizio sommario, degradante, limitativo, che pure era stato pronunciati da un suo stesso maestro, da Ludovico Ragghianti, vittime dei pregiudizi del moderno ad ogni costo, avversi ai valori della grazia, del bello, del senso della misura. Del resto, in questa sottovalutazione Ragghianti non faceva che allinearsi al pur inviso Longhi, che però, di fronte alla mossa a sorpresa messa in atto da Gnudi, a casa sua, in quanto cattedratico proprio a Bologna, aveva dovuto fare buon viso a un gioco non troppo amato, ammettendo, in riferimento alle Biennali dedicate al club dei Carracci, di ritrovare anche in loro qualche traccia dell’amato naturalismo. Di cui certo il Reni non era fonte primaria. Per lui, ci volevano le riflessioni del postmoderno, per ridargli rilancio, una nuova attualità.
Guido Reni a Roma, Galleria Borghese, dal 9 febbraio al 22 maggio, a cura di Francesca Cappelletti.

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