Arte

Lorenzo Costa

Il Palazzo dei Diamanti di Ferrara pesca nel suo grande passato proponendo in varie puntate i protagonisti del proprio Rinascimento. Quella attuale propone Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Occuparsi di una simile accoppiata è senz’altro imbarazzante in quanto si incrocia l’alta navigazione di un capolavoro di Roberto Longhi, Officina ferrarese, opera di indiscusso valore e sensibilità descrittiva, cui tutti dobbiamo inchinarci con deferenza. Si sa bene che io non sono stato ugualmente ligio verso altri capitoli della navigazione longhiana, per esempio mi è capitato di contestare la sua interpretazione “padana” della grandezza del Caravaggio, che non riesce a spiegare come mai, allontanatosi il Merisi da Milano, ci fosse stata una decadenza del capoluogo lombardo, il che certo non era avvenuto da quel momento in poi a Roma. Ma è stato senza dubbio un bene che Fabio Roversi Monaco, nell’ultima sua grande prestazione al Genus Bononiae, da lui stesso creato, si fosse ispirato alle pagine longhiane per proporre una ricostruzione del polittico Griffoni. Ora naturalmente in questa mostra al genio di Ercole è assegnato tutto lo spazio che merita, in una linea che lo fa erede del Tura e del Cossa, come loro aspro, appuntito, geniale creatore di solenni ambienti architettonici fatti per ospitare parimenti agguerrite figure di santi e di committenti. Ma forse con il secondo personaggio, Lorenzo Costa, cambia il discorso, il Longhi ha fatto bene a inserirlo nell’ Officina ferrarese, ma nel suo caso cresce l’indice di bolognesità, si allontana quello di Ferrara. Infatti il Costa è uno dei superbi interpreti della Cappella Bentivoglio, voluta da quella famiglia nobiliare che il perverso destino della città felsinea volle abbattere, pronta a gettarsi tra le braccia di Santa Romana Chiesa in cui giacque fino all’unità d’Italia, ma traendone grossi profitti, rappresentati dalla formazione dei Carracci, che dalla seconda città della Chiesa poterono saltare la tappa fiorentina e puntare direttamente a farsi consacrare da Roma, si pensi ad Annibale, al Reni, al Guercino. Ma tornando alla Cappella Bentivoglio, quella fu del tutto un merito felsineo, proponendo una specie di preavviso della “maniera moderna”, in anticipo su Raffaello, adottando una veste giovanile, si potrebbe dire quasi primaverile, dove la presenza del Costa fu rinforzata da quella del tutto simile del Francia, e assieme fornirono una visione forse un po’ troppo paciosa, tanto da essere accantonati in una scala di valori, protesa ad attendere l’arrivo della Santa Cecilia raffaellesca, come la sola capace di fare storia e di anticipare di un abbondante mezzo secolo l’arrivo dei Carracci. Ma sempre in quella magica cappella ci fu posto anche per il talento aspro e irregolare  di Americo Aspertini, Con lui rientriamo nella navigazione longhiana, che riesce ad assicurargli un posto nella sua Officina, pur dovendo metterlo fuori squadro rispetto all’ortodossa rinascimentale dei classici ferraresi. Ce ne fu abbastanza però per indurre i devoti seguaci dell’inesgnamento longhiano, tra cui Daniela Scaglietti, a dedicare una mostra monografica a quell’intruso portatore di vicende estranee, capaci però di alimentare la stagione di un Manierismo abbastanza efficace, di cui Bologna è del tutto immemore, tanto che a lungo io ho tentato di rendere omaggio a quella stagione ibrida, da una prima modernità quasi adolescenziale a un autunno sapienziale, arrischiato, evoluto o involuto, come quello testimoniato ad alto livello da Pellegrino Tibaldi. Ma non sono riuscito a convincere i miei concittadini a compiere questo passo, ovvero a svolgere una politica di cappelle in fiera disputa tra loro, da quella bentivolesca all’altra di Palazzo Poggi, prima che ad arbitri e risolutori si ponessero proprio i Carracci con le loro prestazioni in altre cappelle. Ma questo è un percorso perfino troppo noto.

Ercole de’ Riberti e Lorenzio Costa, a cura di V. Sgarbi e M. Danieli, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, fino al 19 giugno, Catalogo autoedito.

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