Arte

Nel regno incantato di Lachapelle

Per me è sempre una festa recarmi a visitare una mostra di David Lachapelle, festa raddoppiata quando, come ora, viene allestita, col suo travolgente fasto super-barocco, in un città barocca nel profondo dell’anima come Roma. Solo pochi altri artisti statunitensi al momento sono in grado di offrire un simile alto spettacolo, riuscendo anche a mantenere il prestigio newyorkese nei confronti dell’assedio che attualmente proviene da tanti altri paesi del mondo. Penso a Jeff Koons, a Matthew Barney, quando non si disperde troppo nei percorsi tentacolari dei suoi film. A dire il vero, non è che Lachapelle cambi molto ricette, tecniche, modalità da una sua apparizione all’altra. Sono andato a rileggere quando già scrivevo per una sua mostra al milanese Palazzo Reale, quasi un decennio fa (2007-8), e i termini del mio consenso non mutano di molto, ma certo si allargano, si potenziano in misura crescente. Infatti non per nulla la parola chiave nel titolo di questa mostra è il diluvio, e mettiamolo pure nella versione più aggiornata e nello stesso tempo catastrofica: il nostro artista amministra una sorta di tsunami che tutto travolge sul suo passaggio, senza però compromettere la ridda di oggetti, volti, figure, cibi, abiti trasportati. Questi restano a splendere nella loro pienezza, come li confezionano la merceologia, il consumismo dei nostri giorni, e come ce li rende con infinita sapienza il sistema pubblicitario, di cui beninteso Lachapelle è figlio prediletto, pienamente consapevole di tutte le risorse che gli vengono offerte. Se si vuole, devo riattaccarmi alla formula pur sempre efficace dell’ossimoro, ovvero della congiunzione degli opposti che è al centro di tutta la sua produzione, a cominciare proprio dalla nozione di diluvio. Essa infatti contiene un’anima positiva, sta a significare quanto appunto siamo soliti definire come società affluente, opulenta dei nostri giorni, dove tutto si presenta in una pienezza e perfezione che divengono perfino ottuse: profferte erotiche, seni turgidi, foranti, prominenti, simili del resto a pasticcini, a cibi macroscopici, fatti per nutrire una bulimia incontenibile. Questa è la componente positiva che accompagna il concetto stesso del diluvio, di un’onda piena come più non si potrebbe, ma che nello stesso tempo è pure distruttiva, ovvero quel profluvio contiene i germi della sua condanna, della sua distruzione, dell’abbattersi di una sciagura che spazza via tutti questi corpi opulenti rendendoli piuttosto testimoni di una rottamazione infernale. Dopotutto, proprio la mostra milanese di Lachapelle si poneva sotto il segno di un simile ossimoro, invocando un pronto voltafaccia dal Cielo all’Inferno. Col che entriamo in una dimensione biblica, il diluvio è quello universale del Vecchio Testamento, contro cui bisogna salvare le specie animali, ma anche oggettuali, merceologiche, imbarcandole una per una su un’arca protettiva. O più ancora, è il crollo della Torre di Babele, o una pioggia di lingue di fuoco a punire le nostre colpe dell’orgia consumista, di un Sodoma e Gomorra perfino troppo compiaciuti di se stessi, delle loro imprese portate al limite. Ma l’inferno a sua volta reca con sé un’ipotesi di risalita paradisiaca, e dunque da questo spettacolo di rovine, di degrado fisico e morale, è pur giusto che si innalzi l’immagine di un Cristo redentore, purché un momento prima sia salito anche lui sulla croce, e dunque si presenti come il più umile degli essere umani, intento a frequentare tutti i bassifondi dell’inferno metropolitano, dove si dibattono misere esistenze di drogati, affamati, “coloured”, tallonati dai nuovi farisei che sarebbero i policemen, le forze dell’ordine. Lui spicca per energia, per incontenibile forza giovanile, e forse basta un suo cenno per “risvegliare” dal sonno della perdizione le anime che gli credono. Infatti, dal tetro banchetto dei riti dell’opulenza e del degrado si innalzano i corpi degli “Awakened”, di coloro che levitano per impulso divino remigando verso l’alto, sottraendosi al grigiore dell’inondazione livellante. Certamente la religiosità cui questo artista si ispira è di natura del tutto laica e personale, tanto da permettergli di intitolare una di queste serie a un suo “Gesù privato”, come forse ciascuno di noi si dovrebbe costituire, e custodire tra i vari santini, selfies, foto scattate sugli stupori e inganni della quotidianità. Caduta, cedimento alla libidine, a tutte le lusinghe dei sensi, delle apparenze più seducenti, e in questo senso basterà perdersi nella contemplazione della “Terra che ride nei fiori”, dove si rinnovano le meraviglie dei trofei alla Arcimboldi, o delle “bodegas”, delle “still lifes” tipiche della stagione del barocco più maturo, ma proprio per questo a un passo dal divenire marcescenti. Questa infatti è l’interna dinamica che regola tutto l’universo del nostro super-fotografo, spingere ogni visione a un punto massimo di perfezione, ma poi operarne il capovolgimento, dal celestiale al demoniaco, andata e ritorno. Lo si scorge molto bene in una delle serie recenti che l’artista ha aggiunto a quanto già magnificamente realizzato in passato, mi riferisco alle “Stazioni di rifornimento”, nulla più di un catalogo dei luoghi dove facciamo il pieno di benzina, ma che nello stesso tempo ci forniscono ogni piacere per i nostri palati, e soprattutto ci attraggono in una fantasmagoria di luci, castelli incantati, labirinti in cui saremo catturati per sempre, porte aperte per una discesa senza ritorno agli inferi. O forse no, fidando nell’aiuto di qualche Gesù privato chissà che non riusciamo a riportarci a galla con un colpo di tallone? Forse c’è in ognuno di noi la possibilità di ricevere la grazia, di divenire un “awakened”, magari salendo in uno degli aerei che, nell’ultima serie intitolata alla “Aristocrazia”, vorticano in una purezza azzurrina di cieli. O forse no, anche lassù li raggiunge un’onda dannata di nubi accese, sulfuree, che li cattura e li trascina verso gli abissi. Salvezza e caduta in questo mirioarama sono sempre in bilico, pronte a capovolgere le sorti rispettive.
David Lachapelle, Dopo il diluvio, a cura di Gianni Mercurio. Roma, Palaexpo, fino al 13 settembre. Cat. Giunti.

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