Arte

Perché fare del Macro una cavità oscura?

“Artribune” di qualche giorno fa ha ospitato un articolo a firma Pericle Guaglianone che ha mosso delle critiche all’archistar francese Odile Decq per il suo intervento di ristrutturazione del Macro a Roma. Non credo che quelle riserve si possano condividere. Intanto, ricordiamo la bellissima gara che, sul finire del primo decennio del nuovo secolo, ha opposto appunto il contenitore museale del Comune capitolino, il Macro, a quello dello Stato, il Maxxi, con una stimolante e indovinata lotta di acrostici, posti tra loro in una ascesa che in definitiva premia, come è giusto, lo strumento forgiato dallo Stato, affidato, come si sa, a un’altra Archistar, Zaha Hadid. In definitiva, ritengo che a vincere la sfida sia stata proprio quest’ultima operazione, il Maxxi, con gestazione lunghissima, appoggiata da un solerte e coraggioso servitore dello Stato, Pio Baldi, ingiustamente licenziato non appena ebbe condotto in porto la sua impresa. La Hadid ha avuto il vantaggio di poter ristrutturare ab imis il suo edificio, mentre la concorrente francese doveva rispettare la preesistente ex-birreria Peroni, che fino alla fine del ‘900 aveva ospitato il museo comunale romano, ma offrendo una struttura in sé molto valida, una specie di catamarano, con due ali simmetriche e tante stanze, perfettamente adatte a ospitare mostre e rassegne didattiche, su cui ritengo che la Decq abbia esercitato appena un compito normalizzante. Ma sua è stata la decisione di capovolgere l’accesso alla struttura, in modo da poterla dotare di un’ampia cavità d’ingresso, tinteggiata con uno squillante e bene augurante rosso fiamma, ponendovi anche una scala per accedere a un primo piano, e al catamarano già esistente, ma consentendo anche un ingresso dal basso al cortile centrale, adatto a ospitare installazioni. E infine, e siamo proprio all’intervento messo in discussione dal polemista, accanto all’atrio rosso, la Decq ha progettato pure un’enorme sala, una delle maggiori di cui disponga un qualche museo nel nostro Paese, tinteggiata in bianco, valendosi cioè di una soluzione azzerante, aperta a vari esiti. Il nostro contestatore asserisce che qui la Decq doveva invece ricorrere a un nero diffuso, entrando quindi in competizione con un altro contenitore, lo Hangar ex-Pirelli a Milano, Bicocca. Ma a mio avviso sarebbe stato un intervento del tutto artificioso e innaturale, dato che l’oscurità della Bicocca è qualcosa di insito alla storia stessa della struttura, nata a quel modo, e del resto adattissima, come una sorta di enorme sottobosco, per far svettare verso l’alto quei funghi enormi, velenosi e attraenti nello stesso tempo, che sono le torri realizzate da Anselm Kiefer, tanto adatte a quel luogo che non ne sono state più rimosse, e ne costituiscono la maggiore attrazione. Del resto, quell’antro termina con una specie di abside esposta in pieno alla luce. Imporre invece questa medesima oscurità al Macro sarebbe stata una soluzione artificiosa, troppo condizionante nei confronti di ogni uso posteriore, meglio dunque lasciarla a un biancore azzerante e in sé neutro. Magari, data proprio la vastità di quello spazio, ben difficile da riempire con una soluzione unitaria, la Decq avrebbe potuto dotarlo di qualche sistema mobile di pareti per articolarlo, per suddividere tanto volume, come in effetti i curatori succedutisi negli anni sono stati costretti a fare in tante occasioni, ben di rado trovando un mattatore capace di investire da solo l’intero volume.

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