Dopo essermi occupato la settimana scorsa del film di Almodovar, Madri parallele, mi sembra giusto che ora io rivolga il mio sguardo al film di Paolo Sorrentino, E’ stata la mano di Dio, che sono, l’uno e l’altro, certo i frutti più notevoli di questa ormai quasi trascorsa sragione filmica. Ma sono opere molto diverse, in quanto lo spagnolo si conferma autore misurato, quasi millimetrico nell’impostare il parallelismo tra le sue due protagoniste, con un perfetto gioco di alternanze psicologiche. Sorrentino è invece il solito talento dispersivo, bulimico, sempre sopra le righe, che a mio avviso avrebbe bisogno di avere al suo fianco uno sforbiciatore per tagliar via tanti episodi inutili o sovrabbondanti, i quali infine riescono di ostacolo per i momenti alti, che pure non mancano. A cominciare fin dall’inizio del film, con quella materializzazione di S. Gennaro, come un camorrista minaccioso che insinua la sua testa nell’auto di uno dei protagonisti, e c’è pure la presenza misteriosa del “munaciello”, un ragazzino nascosto sotto un cappuccio che non ne fa intravedere i lineamenti, età, sesso, e dunque non sappiamo se è un’entità propiziatrice o ostile, maledica. Poi, certo, compare la trama non sappiamo bene a qual punto autobiografica dello stesso autore, dove appunto troviamo gli aspetti eccedenti, anche se di sicuro appare efficace la caratterizzazione di molti personaggi, di prima o seconda grandezza, in un omaggio però troppo risentito al neorealismo dei vecchi tempi, inasprito da una parlata stretta del dialetto napoletano, roba da ricordare il Visconti della Terra trema, oppure il Fellini che certo dal neorealismo ha preso lo spunto, ma con la capacità di andare oltre. Questo un altro rischio di Sorrentino, di amare troppo Fellini, e di volerne ripetere certi esiti taumaturgici, miracolistici, come per esempio quello del funambolo pendente dall’alto in una Galleria partenopea. Fra l’altro, nel film c’è un eccesso di nuotate, sembra quasi che quando il film rischia di ristagnare, il regista tenti di rilanciarlo buttando in acqua i personaggi, il che magari gli dà l’estro di mostrarci una Napoli affiorante del mare, con le sue vie brulicanti di case e di popolo. Naturalmente appare giusto il tifo tributato a Maradona, come leit motive tra i più presenti e assordanti. Bravi, inutile dirlo, gli attori, a cominciare da un Toni Servillo che sta molto bene nella parte di padre del protagonista, fatto fuori da una fuga di gas nell’abitazione delle vacanze acquisita a caro rezzo, E dunque dal quel momento il protagonista, Fabietto (In quale misura specchio dello stesso autore?) resta solo con le sue paure, incubi, incertezze a coltivare i sogni di una gloria cinematografica, con accanto un fratello in una parte insignificante, da sforbiciare via, e con un regista che in modi aspri gli insegna i rudimenti del mestiere. Quindi il finale, che in definitiva è una marcia trionfale di Fabietto, capace infine di lasciarsi alle spalle tutti i dubbi, le remore, i passi falsi, e di procedere in treno alla volta di Roma, la Mecca del cinema, con una buona ripresa del motivo iniziale, dato che in una stazione scalcinata, in tutto degna del neorealismo, incontra di nuovo il munaciello che questa volta cala il cappuccio e gratifica il protagonista di un sorriso propiziatore. In sintesi, Sorrentino potrebbe dire che questo suo ennesimo film si è fatto da solo, ma proprio per questo contiene tanti momenti inutili e passi falsi.