Arte

Campanini: il pennello sfida la fotografia

Da tempo vengo portando l’attenzione sul fatto che una di quelle “oscillazioni del gusto” giustamente segnalate da Gillo Dorfles sta ora indicando un ritorno alla pittura. Tra parentesi, nell’insistere su moti pendolari di questo genere io stesso non sono stato da meno, ricollegandomi alle coppie proposte a suo tempo dal grande Woelfflin, sul tipo di chiuso-aperto. Recensendo la Biennale di Venezia del 1956, sul primo numero del “Verri”, e costatandovi una forte presenza dell’Informale, lo avevo proprio salutato come una nuova comparsa di forme “aperte”, col che credo di aver dato la battuta di cui poi Eco ha magnificamente tratto le conseguenze in “Opera aperta”. Dunque, ritorno alla pittura, ma in che modo? Non credo che questo possa avvenire rilanciando qualche stile novecentesco, non l’astrattismo, sia appunto sotto specie di post-informale, sia delle varie declinazioni di un astrattismo geometrizzante. Dio ci scampi da un qualche postimpressionismo, che darebbe ragione a Goldin e alle sue mostre nostalgiche. In sintesi, credo che questo possibile ritorno della pittura si debba mantenere nelle vicinanze della grande avversaria, di colei che le ha rubato il mestiere e intimato l’estinzione, la fotografia. Ma anche questa, di cui si è abusato, e l’abuso continua tuttora nelle varie manifestazioni post-sessantottesche e post-concettuali, trova già le sue versioni più soddisfacenti se esce dalla dieta in bianco e nero e si concede un tripudio di colori, come avviene nell’artista-fotografo numero uno nel mondo, David Lachapelle, che oltretutto punta sulla stretta alleanza tra un colorismo sfacciato e il kitsch delirante nel nostro scenario quotidiano. In fondo, se ci rivolgiamo a un ottimo caso di un artista che ha saputo davvero rilanciare l’atto del dipingere, penso a Edward Hopper, ora in mostra a Bologna, Palazzo Fava, anche lui si è valso di un rassodamento e raffreddamento di matrice fotografica avvenuto su case, porti, strade del paesaggio nordamericano. Un modo molto efficace di costeggiare l’approccio fotografico, ma anche di riaffermare una diversa via d’accesso, ci viene ora da Pierpaolo Campanini, in mostra alla Kaufmann Repetto di Milano. E’ una serie di 7 tele dipinte a olio, caratterizzate da un morboso iperrealismo che tradisce la mediazione della foto, o comunque di uno sguardo meticoloso, incollato ai motivi vegetali che costituiscono il soggetto comune di questa produzione, ritrovati nel giardino di casa, nel sottobosco, in cespugli e ramificazioni spuntati sotto tronchi di alberi. Su questi motivi l’artista è intervenuto, direi, come potrebbe fare un preparatore di soggetti per un trattamento da imbalsamatore, o un botanico mosso pure lui da intenzioni conservative, e dunque pronto a iniettare nelle cortecce, nelle fronde, delle soluzioni miracolose che ne accendano l’epitelio, lo facciano splendere di luce assoluta, prima di affrontare il passaggio necrotico. La fotografia, in fondo, resta pur sempre prigioniera dell’attimo fuggente, e di una inevitabile corruzione fenomenica, atmosferica, invece a questo modo si ridà agli oggetti affrontati una super-verità. Ovvero, siamo a un sur-realismo nel senso etimologico della parola, tradito se si pensa al brutto figurativismo che in suo nome si è preteso di ricavare. È un omaggio alla realtà che si può fregiare di tutti i prefissi possibili, sur, iper, e che nello stesso tempo si fa un punto d’onore nell’evitare di cadere in sentieri già battuti, come appunto sarebbe tutta la dinastia delle derivazioni impressioniste. Naturalmente, quella di Campanini è solo una via possibile, la caccia è aperta per vedere quali altri accorgimenti si potranno adottare per dare seguito a questo improvviso e inopinato ritorno al pennello.
Pierpaolo Campanini. Milano, Galleria Kaufmann Repetto, fino al 18 maggio.

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