Arte

Chiara Camoni, una buona conciliazione tra natura e artificio

L’edizione 2021 di Artcity non finisce di stupirmi. Forse il fatto di non essere stata sorretta dal maestoso galeone di Artefiera ha spinto i vari protagonisti ad aguzzare gli ingegni, e a scoprire tanti spazi utili. Da ultimo è sceso in campo l’edificio più nobile, per il mondo dell’arte, di cui Bologna disponga, il Palazzo Bentivogllo, che se non sbaglio si deve a uno degli architetti della famiglia Morandi, soprannominati i Terribilia, e terribile è davvero quell’edificio, esemplato sul grande prototipo michelangiolesco del Palazzo Farnese. Siamo quindi nel pieno di quel manierismo di cui la città felsinea è stata ottima tribuna, vi appartiene anche il Palazzo Vizzani di cui appena due domeniche fa ho celebrato le lodi. Ma il Bentivoglio è davvero un galeone, quasi una portaerei per tanti fatti artistici bolognese. Al piano nobile vi risiedeva il notaio Stame, uno dei pochi collezionisti di valore che la nostra città possa vantare. Non si contano poi gli studi che nei vari piani, pianerottoli, mansarde eccetera in cui sono vissuti, e tuttora vivono tanti pittori di casa nostra, Ma ora a dominare il tutto, in un ampio appartamento a pianterreno, è la famiglia dell’industriale Vacchi, un discendente del grande Sergio, e già alle pareti delle sue stanze si possono ammirare opere significative, scelte con cura dalla moglie Gaia, che però non si è accontentata delle mura domestiche ma ha reso agibile un sotterraneo, dotando così la nostra città di uno spazio espositivo in più, ampio e nello stesso tempo suggestivo, come tutti i sotterranei. Ora vi si può ammirare una mostra di Chiara Camoni, che avevamo selezionato, io e gli amici Bartorelli e Molinari, per una Biennale Giovani tenutasi a poca distanza, e di nuovo in un sotterraneo, appartenente all’Accademia di belle arti. Ricordo che io stesso, in una sala centrale, ho disposto con ammirazione un’opera della Camoni, un lungo collare di un rosa carnacino, destinato ad allargarsi in molli spire, come di un essere marino spuntato dalle acque. Questo è infatti il tratto distintivo della nostra artista, ormai sull’orlo della mezza età (1974). una ibridazione tra il naturale e l’artificiale, tra il ricorso a animali e vegetali balzati fuori da un mondo di prodigi, di “mostri”, ma nel senso positivo della parola, e l’affondo nell’artificio più sottile, senza neppure temere di sfiorare qualche nota di kitsch. In ogni caso, la Camoni ci indica un percorso tipico della sua generazione, di fuga dalle fredde e dure prospettive del concettuale, non già per approdare a un rilancio della pittura, ma quanto meno a un sensibilismo ricco di seduzioni e di affetti. Per esempio, a dominare la presente mostra è una pianta, detta Ipogea, proprio perché spunta nelle tenebre del sotterraneo bentivolesco, come una orchidea malsana, in quanto cresciuta in assenza di luce, priva di sintesi clorofilliana, e dunque i petali si fanno duri, coriacei, o fanno pensare addirittura alle squame di un serpente, magari di quelli velenosi che si annunciano quasi con un suono di nacchere. Il titolo della mostra è Pietre e scultura, ma, se pensiamo al secondo termine, si tratta di una scultura in fuga da materiali duri e resistenti, innamorata invece , come dicevo, della consistenza leggera, carnosa ma non troppo, di vegetali o di creature degli abissi. Quanto alle pietre, direi che la nostra Camoni, piuttosto che accumularle, preferisce rimuoverle, lasciando apparire a nudo le tracce che ne restano sui muri, preziose come dei sudari, come dei lunghi e ben diramati tatuaggi. Che ovviamente possono balzare fuori dagli spazi “ipo”, andare ad animare le pareti dell’abitazione, apprestando dei veli, dei manti pronti ad avvolgerne gli ospiti.

Standard