Una vasta rassegna di opere di Pablo Echaurren alla GNAM impone che si vada a rileggere l’intero suo percorso, evidenziandone la natura di grafico eccellente, il che è subito indicato dal titolo dato all’intera retrospettiva: “Contropittura”, come dire, un’attività che si pone su un piano minore, rispetto all’ufficialità della pittura, ma che da quell’angolo marginale intende giocare una carta di protesta, polemica, disturbatrice, epperò nello stesso tempo tenta di farlo in modi suadenti, conquistando il consenso dei fruitori. In tutto questo c’è perfino una eredità dal grande padre che Pablo ha avuto, Sebastian Matta. Forse non è contento se si va a ricordare questo ingombrante genitore, da cui ha voluto prendere le distanze, prima di tutto per motivi personali, imputandogli di aver trattato tropo male la moglie romana, e madre di Pablo stesso, ma più ancora per liberare la sua immagine appunto da quella paterna. Eppure anche Sebastian, in definitiva, è stato un grande grafico, rivolto a ricavare dal repertorio del Surrealismo una serie di immagini biomorfe, come tronchi di budelle e di altre interiora, portandole ad allacciarsi tra loro. Non sembri irriverente l’accostamento, ma in un simile modo di procedere io ho sempre scorto qualche traccia che ci riporta a Jacovitti e ai suoi famosi salami tagliati a fette e profusi con ritmo inflazionato in ogni punto delle scenette ordite. Tra padre e figlio, insomma, è in comune il voler procedere con ritmo inflazionato, parossistico, incalzante, solo che muta radicalmente la materia prima cui rivolgersi in questo saccheggio metodico. Il padre, come già detto e ben noto, si vale del mondo biomorfo caro al Surrealismo, nel filone che viene da Mirò e Tanguy, mentre Pablo, in rispondenza alla sua più giovane età, sceglie semmai un padrino molto più duro e secco quale Duchamp, ma vedremo che ne mette in crisi il carattere di assolutezza perentoria, procedendo a farne un uso “popolare”, trasferendolo da preziosa icona per i pochi a immagine di uso corrente. Mi si potrebbe rinfacciare che proprio la prima serie di queste deliziose prove grafiche, recante il titolo “Volevo fare l’entomologo”, denuncerebbe anche nel caso di Pablo una partenza da un patrimonio organicista, ma questo risulta subito negato, contrariato da una quadrettatura minuziosa, riempita di piccole immagini accuratamente definite, campite con colori tersi, chiari, degni di cartoni animati. Fin da questo primo momento, mi sembra di vedere l’artista proiettato verso esiti cinetici quali sono consentiti, o addirittura imposti, dagli sviluppi tecnologici. Mi pare di vedere, alla sorgente di questi deliziosi riquadri, le agili mosse di un pennello virtuale che sotto i nostri occhi va a riempire accuratamente le varie caselle e profili, come un tempo poteva avvenire nelle miniature e oggi negli spot pubblicitari. Tutto ciò è anche un modo per riconoscere la freschezza e disinvoltura secondo cui si svolge, in presa diretta, questo felice tinteggiare e campire con mano leggera. Ma come tutti i membri della sua generazione, la stessa che ha dato vita alla “contropittura” del ’68, Pablo non poteva mancare a un appuntamento, come già detto, con Duchamp, che però egli va a prendere, al solito, “di traverso”, non rispettando il silenzio e vuoto auratico in cui si sono svolti gli esercizi ad alta tensione mentale, e a scarsa ricaduta visiva, del Francese. Lo si poteva, sì, riprendere, ma a patto di imbottire quei vuoti, quasi per renderli più confortevoli, più abitabili, il che trova appropriata conferma in uno dei paradossi o arguti capovolgimenti di celebri sentenze cui Pablo ricorre, proprio per dare forza alla sua volontà di essere popolare, comunicativo al massimo. In fondo, Duchamp è colui che ci invita a considerare l’arte come sacrificio, rinuncia ai piaceri dei sensi, sforzo della mente. Converrà allora ribaltare un impegno del genere, infatti una delle sezioni della mostra si intitola “La fine del sacrificio come arte”.
Poi Pablo incontra sulla sua strada i “Writers” statunitensi, ovvero i Graffitisti, e ne accetta ben volentieri la lezione, se ne impadronisce, si dà a tracciare il suoi segni insistiti con scrittura alla brava, con bastoncini rigidi come palafitte, intrecciati tra loro, a fare muro, palizzata. E anche a questo proposito scatta un ulteriore azzeccato calembour: “La questione murale”, da cui non è assente, ancora una volta, un desiderio di essere “impegnato”, di assumere responsabilità in campo morale e ideologico, ma purché queste istanze non diventino uggiose, e non si sottraggano alla possibilità di trovare suadenti espressioni di natura grafica, come deve avvenire coi murali, o anche con i tatzebao, se pur sempre ci si vuole richiamare a fenomeni tendenzialmente rivoluzionari, purché un intento del genere non prescinda mai dalla volontà di tradursi in un immaginario sciolto e avvincente. Se si va a vedere, questa è di nuovo una regola comune a padre e figlio. Anche il genitore, quando stendeva i suoi murali per protestare contro qualche delitto commesso dall’Occidente, non mancava mai di valersi delle doti di grazia, fantasia, fluidità che si addicono al grande grafico, magari creando anche il dubbio che il suo impegno non fosse poi tanto comprovato e contenesse anche una buona parte di evasione. Si deve aggiungere che anche di fronte a queste prove, non già di “calli”, bensì di “caco-grafia”, si sentirebbe il bisogno di uno sbocco cinetico. Quei bastoncini a caratteri cubitali vorremmo vederli comparire in movimento, affidati alla videoarte. Oppure no, è giusto che insistano nell’andare a tappezzare pareti, muri, magari a loro volta contrassegnati da tracce di usura, di grossolana consistenza. Siamo tutti in attesa di vedere le immagini sicuramente rozze, espressioniste che il grande videomaker Kentridge si è prefisso di infiggere sui muri romani costeggianti il Tevere. Anche il nostro Pablo potrebbe allacciarsi a un’impresa del genere e continuarla felicemente.
Pablo Echaurren, Contropittura, a cura di Angelandreina Rorro. Roma, GNAM, fino al 3 aprile, cat. Silvana.