Arte

Gursky e il MAST

Non sono mai stato molto favorevole al MAST di Bologna, dove la seconda lettera dell’acrostico sta per “arti” al plurale, ma dà ben poco spazio alla pittura, puntando tutto sulla tecnologia e sul suo intervento nell’altro campo attraverso la fotografia. Inoltre, pur eretto agli inizi del nostro secolo, quell’edificio sembra del tutto ligio alle regole del Movimento moderno, come serie di scatole rigorosamente perpendicolari inserite le une dentro le altre. Ma qualche volta si sa bene che la fotografia si è posta al servizio dell’arte, soprattutto al momento del “concettuale” più puro. E così si può visitare l’omaggio attualmente resto a Andreas Gursky (1955) come un succedaneo a un intervento pittorico. Anche se questo artista tedesco, assieme ai colleghi Thomas Struth, Thomas Ruff e Candida Hofer, maneggia la fotografia attraverso lo sharp focus considerandola come l’equivalente di un prelievo diretti degli oggetti alla maniera del ready-made duchampiano, grande pilastro del concettuale, come già appariva nei loro due maestri, i coniugi Bernt e Hilla Hofer, col loro prelievo di cimeli della prima epoca industriale. Naturalmente oggetti così ingombranti per loro natura postulano il ricorso alla miniaturizzazione fotografica. I quattro allievi hanno cercato di differenziarsi nei temi, così i due Thomas si sono specializzati nel volto umano, la Hofer ha puntato agli interni di teatri e biblioteche, infine Gursky si è specializzato in scene di massa, così affollate da poter essere scambiate per il pulviscolo reso da un ammassarsi di pixel, cioè di un’immagine elettronica, La foto ostentata come richiamo alla presente mostra pare una specie di ghiacciaio, con le sue curve isoipse di frattura o di scioglimento, oppure come le anse di un fiume ricoperto di neve. Qualcosa che potrebbe anche ricordarci esiti da Land Art. In ogni caso rimaniamo nel duro, nel puro, nel freddo, ragione per cui non avrei ammesso né Gursky né i suoi colleghi nei miei Protagonisti, dominati, a livello fotografico, dalle grandiose contaminazioni di David Lachapelle, interventi di massima ibridazione con tutto l’immaginario che ci circonda,. Mentre il Mast, nella sua perfezione asfittica, nulla vuole concedere a simili contaminazioni, il che ne consacra la lontananza da una scena di attualità.

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