Artribune del 4 febbraio scorso ci informa che il Victoria and Albert Museum di Londra ha messo on line le immagini dei sette cartoni per arazzi di sua proprietà stesi dal grande Raffaello. Occasione superba per ammirare una delle massime opere del divino Sanzio, in cui egli si proietta in avanti di più di un secolo riuscendo a farsi suggeritore dei pittori francesi del Re Sole, da Nicolas Poussin a Gharles Le Brun, impresa incredibile che forse non è mai riuscita a nessun altro artista. Raffaello non si è fatto condizionare troppo dal compito di fare un lavoro destinato a un fine artigianale come quello della tessitura di arazzi, o meglio, ha rispettato la regola di dover offrire delle immagini rovesciate da destra a sinistra per le necessità pratiche della confezione pratica, ma non ha rispettato per nulla le esigenze di una tecnica, come quella dell’arazzo, che di per sé sarebbe divisiva, tale da richiedere una narrazione spezzata, come avviene pure per altre tecniche, dal mosaico alle tarsie alle vetrate gotiche. Si noti che altri grandi artisti, penso a Goya, hanno approfittato di questo carattere richiesto dalla finalità di giungere a una tappezzeria. Si sa che l’artista spagnolo, nei suoi anni giovanili, reclutato alla corte dei sovrani Borboni, produceva cartoni da cui poi fosse possibile ricavare appunto dei prodotti piacevoli e ornamentali per le stanze private dei sovrani, ed è riuscito a fare di necessità virtù ottenendo proprio da quelle modalità cui era obbligato uno stile “schiacciato”, quasi astratto, stilizzato. Non così il Sanzio, che non si lascia suggestionare per nulla dal compito di arrivare a un esito finale piatto, fortemente lineare, ma invece procede impavido per grandi masse, per soluzioni di racconto pieno, ampio, sciolto il più possibile, del resto interamente corrispondente con quanto negli stessi anni, secondo decennio del Cinquecento, prima della morte precoce, gli riusciva di fare nelle Stanze Vaticane, Là inevitabilmente era condizionato dalla più difficile ed esigente tecnica dell’affresco, mentre nei cartoni poteva procedere più libero e spontaneo. Si dice di solito che in quel ciclo egli raccoglieva la sfida di Michelangelo, ma se così, ne usciva totalmente vincitore. Il Buonarroti pittore ha sempre risentito della sua vocazione prevalente di grande scultore, interessato soprattutto a insistere sul protagonista umano, patendo invece una quasi totale difficoltà a immergerlo in un ambiente aperto e arioso. Buon per lui che il soffitto della Sistina esigesse di essere articolato in spazi angusti, quasi fatti su misura per ospitare, come in tante nicchie o su tanti piedistalli, le sue statue forzosamente costrette alle due dimensioni. Si è invece trovato a disagio quando poi, scomparso il pericoloso concorrente e rimasto a dominare sulla scena romana, aveva steso il Giudizio sulla grande parete di fondo, ma risolvendo la scena in tanti episodi, senza dubbio grandiosi ma spezzati, privi di un vero collante. Del resto questa sua difficoltà ad affrontare davvero soluzioni ambientali lo destinava a farsi il maestro del nascente Manierismo, con conseguente scomparsa dagli annali di una modernità destinata a trionfare nel Seicento e nelle sue varie anime barocche, tra naturalismo e classicismo, di cui invece, come appena detto, il genio raffaellesco è il magnifico anticipatore. Da qui, non nascondiamocelo, il declino delle fortune michelangiolesche nei tempi del trionfo del moderno, con la necessità di essere riscoperto solo sul finire del Settecento, da artisti come Fuseli e Blake, in piena rivolta proprio contro un raffaellismo divenuto obbligatorio, imposto a forza da Sir Josuah Reynolds e da tutte le accademie dell’Occidente. Tornando ai cartoni, magnifico è vedere come l’autore sa adeguarsi alle varie esigenze del racconto, con meravigliose specchiature d’acqua se gli apostoli vanno in barca, o invece con un gestire maestoso, ben sostenuto dai viluppi di abiti, se gli episodi si consumano in interni, ampi, spaziosi, accoglienti. Certamente i poveri artigiani del passaggio agli arazzi dovettero fare fatiche erculee per ridurre in superficie e in un gioco lineare tutte quelle superbe, impeccabili, ostentate volumetrie.