Arte

Il catalogo universale di Ed Ruscha

Tra le varie fondazioni e istituzioni che fanno di Torino il “terzo incomodo” tra Milano e Roma, come il Castello di Rivoli, la GAM, la Sandretto Re Rebaudengo, la Mario Merz, ce n’è pure una intestata a Gianni e Marella Agnelli, la più piccola, in termini spaziali, ma la più ardita, dato che è stata progettata da Renzo Piano alla maniera di una navicella spaziale, o di una farfalla cosmica, che è andata a posarsi, leggera e aerea, sul corpaccio mastodontico del sottostante Lingotto. In questo momento quello scrigno prezioso ospita un’ampia rassegna di Ed Ruscha (1937), lo statunitense che è tra i frutti migliori e più tipici della “rivoluzione” del ’68, quando gli artisti furono persasi a rinunciare al pennello a favore della macchina fotografica, o dell’assunzione diretta degli oggetti, o della coltivazione di “concetti” immateriali aleggianti nella loro mente. Ma forse, ancora prima, Ruscha è figlio del clima Pop, ovvero della debordante presenza di oggetti, rispetto ai quali ha adottato la procedura di Warhol, non l’elogio, la celebrazione monumentale di un singolo prodotto, bensì la fedele documentazione del loro propagarsi in serie, in modo che la quantità illimitata faccia premio sulla qualità e riscatti la banalità-casualità che il singolo pezzo può vantare. Anzi, più anonimo e banale appare il “token”, la misera pedina di quel gioco multiplo, meglio è, su di essa si avventa avida e mai saziabile l’ingordigia dell’artista. Fra l’altro, questo elogio del numero, della quantità fa premio pure sulle dimensioni del singolo reperto. Proprio per poterne infilzare una folla innumerevole nel suo spiedo paziente, Ruscha si attiene a piccoli formati, ovvero va a collocare queste spoglie multiple nel formato di cartoline postali, o di quei dépliant tra il turistico e il pubblicitario che si sventagliano a organetto, o infine, diciamo la parola ultima, egli è produttore di quel genere particolare che si definisce “libro d’artista”, dove si stabilisce una arguta quérelle tra i due termini, non si sa bene cioè se sia l’assetto del libro, con l’inevitabile foliazione, la successione delle pagine, a imporre le sue regole, o invece la bizzarria, o quanto meno la varietà di soluzioni che appartengono all’attività di un artista. Non per nulla nella Biennale di Venezia del 1972, trovatomi a illustrare gli aspetti del “comportamento” al suo primo imporsi, avevo ritenuto obbligatorio allestire proprio una sezione dal titolo “Il libro come luogo di ricerca”, avendo al mio fianco la piena competenza di Daniela Palazzoli. E ovviamente Ruscha era tra i testimoni più autorevoli di quella modalità operativa, che era anche pronto a coltivare con ricorso a una vasta gamma di tecniche. Tra queste, primeggiava allora, e in questa mostra monografica, il riporto fedele della stampa fotografica, ma ci può stare pure ogni altra tecnica che si addice al versante grafico.
Naturalmente questa avidità di andare a catalogare l’ovvio, il banale, l’anti-estetico allaccia Ruscha appunto ad altre manifestazioni di una propensione “concettuale” a stabilire una sorta di catalogo universale di tutto quello che esiste, per quanto vile, anonimo, marginale esso possa sembrare. Da lui parte un filo che lo lega alla coppia tedesca di Bernt e Hilla Becher, solo che questi due hanno limitato la loro voracità, bloccandola alla registrazione di una sola specie di oggetti votati all’”antigrazioso”, al cattivo gusto più smaccato, i reperti di archeologia industriale, mentre l’arco delle riscoperte e rivalutazioni del Nostro è decisamente più ampio, anzi si caratterizza proprio per l’intento di apprestare un glossario universale per figure di tutte le creature, naturali o artificiali, che infestano il nostro pianeta. Per cui, alla fine, in luogo di andare a spulciare questo immenso repertorio con le armi della valutazione critica, nel tentativo di assegnare voti quanto a riuscita estetica, è molto meglio assecondare la vocazione che è il primo motore di un simile saccheggio sistematico di ogni esistenza. Basterà insomma limitarsi ad elencare le serie, nel loro transitare dall’artificiale (radio, schermi cinematografici, stazioni di servizio, piscine) ai reparti dedicati a “animali e frutta”, senza neppure evitare la casella in cui sostiamo noi esseri umani, magari ricercati, scovati in aspetti deteriori, in una galleria di volti “criminali” quali si possono trovare nei vecchi atlanti elaborati da Lombroso e compagni.
Ed Ruscha, Mixmaster, a cura di Paolo Colombo, Fondazione Pinacoteca del Lingotto Giovanni e Marella Agnelli, fino all’8 marzo, cat. Rizzoli

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